Pagina 8 - Self Rivista - Anno 1 n°3

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piangendo, consumato dal sentimento di orrore e di tristezza su
quanto era successo a Daphne e a me.
A quella conferenza era prevista una cena per tutti i
partecipanti, molti dei quali erano miei vecchi e cari amici nonché
colleghi a me vicini. Nonostante ciò appena mi guardavo intorno
nella sala da ballo tutti quanti mi sembravano esseri strani e alieni.
O, più precisamente, ero io che sembravo come un essere strano e
alieno, non di questo mondo. Gli altri sembravano così vitali,
occupati vivacemente l’uno dell’altro. Al contrario io mi sentivo a
pezzi e istupidito, il guscio dell’uomo che ero stato un tempo. Un
abisso invalicabile sembrava essersi aperto separandomi per
sempre dai miei amici e colleghi. Essi non avrebbero potuto
nemmeno cominciare ad avvicinarsi alla comprensione della mia
esperienza, dicevo a me stesso, perché in quel momento noi
vivevamo in mondi totalmente differenti.
Negli anni che seguirono quella penosa situazione ho cercato
di comprendere e concettualizzare il terribile senso di isolamento ed
estraniamento che mi sembrava essere intrinseco all’esperienza di
un trauma psicologico. Cominciai ad essere consapevole che questo
senso di alienazione e isolamento era un tema comune nella
letteratura sul trauma (es. Herman, 1992), ed ero in grado di
riconoscerlo in molti dei miei pazienti che avevano esperienza di
gravi traumatizzazioni. Uno di questi, un giovane uomo che,
durante la sua infanzia e nell’ età adulta, aveva subito perdite
multiple di amati membri della sua famiglia, mi disse che il mondo
era diviso in due gruppi: i normali e i traumatizzati. Non c’era
possibilità, diceva, per un normale di poter mai comprendere
l’esperienza di un traumatizzato.
Ricordo quanto fu importante per me credere che l’analista che
vidi dopo la morte di Daphne fosse anche lei una persona che