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L’ermeneutica filosofica, così come è inerente alla natura del
processo conoscitivo, ha immediata rilevanza per il profondo
sconforto riguardo il fatto di non essere compresi nella propria
esperienza che è alla base del trauma psicologico. Per Gadamer
(1960/1972) la proposizione per cui ogni comprensione implica
interpretazione è assiomatica. L’interpretazione, a sua volta, può
esserci soltanto da una prospettiva fissata nella matrice storica
della tradizione personale dell’interprete. Il comprendere inoltre,
avviene sempre a partire da una prospettiva i cui orizzonti sono
delimitati dalla storicità dei principi organizzatori dell’interprete,
dalla fabbrica di preconcetti che Gadamer chiama “pregiudizio”.
Gadamer ha illustrato la sua filosofia ermeneutica applicandola al
problema antropologico del tentare di capire una cultura diversa
nella quale le forme di vita sociale, gli orizzonti di esperienza, sono
incommensurabili con quelli del ricercatore.
A un certo punto, studiando il lavoro di Gadamer, mi tornarono
in mente i miei sentimenti alla cena congressuale quando pensavo
di essere un alieno nei confronti degli altri normali intorno a me.
Nei termini di Gadamer, io ero certo che gli orizzonti della loro
esperienza non mi avrebbero mai compreso e questa convinzione
era la causa della mia alienazione e della mia solitudine,
dell’insormontabile abisso che mi separava dalla loro comprensione.
Non è quindi esatto dire che i traumatizzati e i normali vivono in
mondi differenti: è che questi mondi discordanti vengono sentiti
come essenzialmente e radicalmente incommensurabili.
Sei anni dopo la cena congressuale, ascoltai qualcosa in un
lavoro letto dal mio amico George Atwood che mi aiutò a capire
meglio la natura di questa incommensurabilità. Nel corso della
discussione sulle implicazioni cliniche di un contestualismo
intersoggettivo dal quale l’oggettivismo cartesiano deve essere