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radicale, alcuni asserirebbero che la psicoanalisi dovrebbe vedere
se stessa come una sotto-disciplina delle scienze cognitive. E’
diventato di moda, anche tra gli psicologi del sé e altri analisti
relazionali, parlare di ciò che è “innato “ e “pre-fissato”. Per me
questo è un ritorno a una forma di teorizzazione psicoanalitica, che
Freud ha chiamato metapsicologia, cioè a dire, a un richiamo alla
“conoscenza” oggettiva, vista come una serie di fatti,
presumibilmente conosciuti da Shore e da altri neuropsicoanalisti, e
rispetto alla quale le teorie psicoanalitiche possono essere misurate
per la loro adeguatezza, e che non sono, né in realtà né in potenza,
passibili di esperienza da parte del loro soggetto. Lo sfortunato
effetto clinico di questa regressione teorica è solitamente di
confermare la convinzione emotiva del paziente più satura di
vergogna: c’è qualcosa in me di intrinsecamente difettoso.
Shore è un eminente sostenitore e artefice dello sviluppo di ciò
che chiama neuropsicoanalisi” o “neuroscienza affettiva”. In
risposta alle sfide da parte di Gruenbaum e di altri alla rispettabilità
della psicoanalisi come disciplina, Shore afferma esplicitamente che
la scienza cognitiva possiede ora gli strumenti per completare “Il
progetto di una psicologia scientifica” del giovane Freud e per
rispondere alla sfida di Gruenbaum. La scienza cognitiva, egli crede,
può dimostrare che gli stati affettivi hanno correlati oggettivi nel
cervello (la correlazione è ancora una volta confusa con la causalità
?) e può così rivendicare l’affermazione psicoanalitica di identificare
le motivazioni inconsce, anche se queste sono ora considerate più
complesse (Lichtenberg, Lachmann e coll. 1992) di quanto Freud
aveva supposto. I problemi dell’affetto e della motivazione, secondo
Schore,