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Questo abbraccio esplicito del pensiero riduzionista è
esattamente in sintonia con il nuovo riduzionismo filosofico, che
risolve, dobbiamo ammetterlo, per i suoi aderenti il problema del
dualismo mente-corpo. Ci sono soltanto cervelli e i loro corpi.
Tuttavia, mi sembra che sia il dualismo che il monismo trattino il
semplice come più reale, più vero e più importante del complesso,
dell’esperienziale, del descrittivo. Il mondo esperienziale
(Orange,2001) viene completamente perduto in questo “progetto” e
per me è difficile vedere come il mondo esperienziale di una
persona possa essere guarito e trasformato da un simile
“interpretare verso il basso”. La metafora della profondità nella
“psicologia del profondo” è stata capita, io credo, in modo
riduzionista, come se più profondo significasse più semplice o più
concreto. Questo è realmente tutto per una pulsione, un conflitto,
una “posizione” e ora per la neurobiologia. Comprendere abitando il
campo intersoggettivo formato dai mondi emotivi dei partecipanti è,
a dire poco, un gioco linguistico diverso e molto complesso. Ma, io
chiedo, entrambi i discorsi sono veramente inter-traducibili, sono
ugualmente psicoanalisi? E’ necessario per i candidati apprendere il
linguaggio della neurobiologia se devono diventare buoni
psicoanalisti? (questo sembra implicito nella posizione di Shore).
Quali informazioni clinicamente utili fornisce questa teoria che il
clinico potrebbe non ottenere prestando una attenzione aderente?
Oppure il caos esperienziale - la confusione e la disperazione che il
sistema analitico non può evitare - sembra più trattabile per noi
analisti se possiamo dire che stiamo veramente lavorando su
connessioni neurali mal predisposte o con modalità di attaccamento
biologicamente innate nel cervello del paziente?