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pratiche autoritarie in psicoanalisi. Ma questa critica tagliava da
entrambi i lati, perché non soltanto metteva in discussione l’edificio
concettuale freudiano e kleiniano , ma riduceva l’esperienza del
paziente alla categoria di fiction espressiva (Spence,1982;
Geha,1993). Come ha notato il filosofo americano Hilary Putnam,
questa forma di relativismo è altrettanto positivista
dell’oggettivismo che essa critica. “Invece di ammettere che (il
quadro riduttivo del mondo) è soltanto una verità parziale, soltanto
un’astrazione dal tutto, sia i positivisti che i relativisti cercano di
contentarsi di risposte ipersemplificate, di fatto chiaramente
assurde, ai problemi dell’intenzionalità” (1990, pag. 17). In certi
ambienti il postmodernismo è diventato la propria base dogmatica
dalla quale valutare il pensiero psicoanalitico (Moore,1999; Orange,
2001).
A molti sembra che ci siano soltanto due scelte: un costruttivismo
impeccabile (senza peccato) e il positivismo (una parte di ciò che
ho chiamato realismo oggettivista). I giganti della filosofia del
ventesimo secolo (Wittgenstein, Gadamer e Davidson) pensano il
contrario, mentre i postmodernisti psicoanalitici, come Moore, non
vedono altre possibilità. Mentre il termine “positivismo” è stato
certamente usato variamente, mi sembra che restringerlo al
verificazionismo implicato dall’empirismo scientifico abbia un senso.
In questa epistemologia soltanto proposizioni che possono essere
quantificate e verificate (sperimentazione riproducibile) contano
come scientifiche. Al minimo, un’affermazione significativa deve
includere la specificazione di quelle condizioni che conterebbero per
falsificarla. Tra il positivismo scientifico e il punto di vista della
completa “creazione della realtà” c’è un territorio ampio ed
interessante da esplorare, includendo diverse versioni del realismo
moderato. Tra i quattro psicoanalisti discussi da Moore (Spence,