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Schafer, Hoffmann e Stolorow), soltanto Spence sottoscriverebbe
qualcosa di vicino al positivismo classico o al postmodernismo
estremo. Gli altri stanno tutti lottando, più o meno con successo,
per articolare concezioni dell’esperienza e del processo
psicoanalitico non riduzioniste. L’uso dell’ortodossia postmoderna
per valutare il loro lavoro è una forma paradossale di riduzionismo.
Un’altra grande difficoltà dell’antidoto postmoderno consiste
nell’appoggiarsi sulle metafore molto concrete del costruire, della
costruzione e del costruttivismo. Per me, questo è altrettanto
fuorviante della metafora archeologica di Freud che si limita a
capovolgere. Invece di scavare le rovine, noi (come Dio) stiamo
creando e costruendo la realtà. Il recente
“The social construction
of what?”
(“La costruzione sociale di che cosa?”) di Ian Hacking
suggerisce che il proposito sottostante al discorso della costruzione
è di minare l’impressione di inevitabilità che etichette e categorie
tendono a creare. I suoi esempi spaziano dai quark all’abuso dei
bambini. Una volta che qualcuno realizza che qualcosa potrebbe
essere descritto o concettualizzato in maniera differente, comincia il
discorso della costruzione. Usando l’idea di Hacking, possiamo
vedere che il lavoro psicoanalitico si presta facilmente al discorso
della costruzione. I pazienti entrano nel trattamento psicoanalitico
soffrendo, potremmo dire, gli effetti di convinzioni emotive - su se
stessi e sulle loro possibilità - mantenute con rigidità. L’esperienza
della relazione analitica, incluso il lavoro interpretativo condiviso,
può allentare queste convinzioni, diminuendo il senso di
inevitabilità. Non meraviglia il fatto che l’idea di costruzione, che
include l’idea di possibilità e prospettive alternative, sia diventata
così popolare in psicoanalisi. L’esperienza personale organizzata del
paziente diventa la costruzione dell’analista, vale a dire che la
prospettiva esterna del teorico (l’analista) la vede come