Pagina 15 - Self Rivista - Anno 1 n°3

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La psicologia del sé, fin dal suo inizio, ha messo in evidenza il
rispecchiamento della grandiosità naturale - o espansività - del
bambino come ingrediente essenziale di uno sviluppo sano. Questo
processo è stato chiamato responsività “d’oggetto sé” per indicare
che un bambino, o qualsiasi persona, può usare questo
rispecchiamento per costruire e mantenere un’esperienza di sé
continua, coesa, e valutata in modo positivo. Qui, tuttavia, prendiamo
in considerazione un’altra esperienza d’oggetto sé - strettamente
connessa al rispecchiamento - che è particolarmente significativa
nella cura psicoanalitica. Per il momento propongo di convenire di
chiamarla “esperienza d’oggetto sé di testimonianza”. La
testimonianza - una forma speciale di partecipazione nel campo
intersoggettivo - rende l’esperienza di sofferenza di una persona,
reale, valida, e importante per quella persona.
In
La chiave accantonata
(1990), Alice Miller - che oggi rifiuta in
toto la professione psicoanalitica perché crede che non possiamo o
non vogliamo ascoltarla - afferma che la differenza cruciale negli esiti
di gravi abusi sui bambini dipende dalla presenza di qualcuno, nella
loro vita, che sia testimone, e che fornisca quindi al bambino la
capacità di fare esperienza del proprio dolore. Alice Miller ritiene che
senza questa testimonianza il bambino non possa fare esperienza
dell’abuso come abuso. Senza la testimonianza l’abuso rimane invece
una tortura che bisogna sopportare. Il bambino spesso sente di
meritare quel trattamento che un osservatore considererebbe crudele
e indegno. In presenza di un qualche testimone che convalidi la sua
esperienza - anche in misura minima - il bambino può sentire l’abuso
come maltrattamento e, di conseguenza, trovare i modi di esprimerlo,
magari nell’arte. Come dice la Miller: