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funzione di testimonianza. La Miller, infatti, applica la sua teoria al
trattamento dei bambini:
«Se vogliamo che i bambini maltrattati non diventino criminali o
malati mentali allora è essenziale che, almeno una volta nella
vita, essi siano entrati in contatto con una persona che sa - senza
alcuna ombra di dubbio - che è l’ambiente intorno al babino ad
avere colpa, e non il bambino stesso, così abusato e privo
d’aiuto… E proprio qui c’è la grande opportunità - offerta a
parenti, operatori sociali, terapeuti, insegnanti, dottori, psichiatri,
pubblici ufficiali, infermiere - di credere al bambino e di stare
dalla sua parte»
Analogamente l’analista o il terapeuta che voglia comprendere cosa
sia accaduto a quel bambino che ora - da adulto - viene in
trattamento, diventa il testimone che rende possibile a quell’adulto di
fare esperienza di tutto l’orrore della propria storia, e quindi di
cominciare a guarire. Ciò che frequentemente chiamiamo rifiuto,
diniego, o mancanza di consapevolezza, spesso può essere
un’esperienza di cui non si è mai veramente fatto esperienza (vedi
Stolorow e Atwood, 1992). Essa può essere il dato (l’evento bruto) di
cui non possiamo fare (costruire, organizzare) niente. Quando i
pazienti ci dicono che nessuno li comprende eccetto l’analista, spesso
vogliono dire che solo ora stanno cominciando a conoscere la propria
storia. Questi fenomeni clinici mettono in evidenza il carattere
ampiamente intersoggettivo del conoscere se stessi.
Per cominciare con il tipo di situazione descritta da Alice Miller,
consideriamo la mia paziente Terry. La sua famiglia paterna ha una
complessa storia incestuosa violenta: membri della famiglia sono
spesso imparentati sia come figli che come fratelli. Il padre della