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la sua insegnante delle violente sgridate, di quando veniva chiusa in
cantina, e tanto meno dell’incesto. Non era sicura che quella donna
fosse a conoscenza della situazione che c’era a casa sua. Eppure:
“Non ci ha mai rimandato a casa; non ci ha mai chiesto perché
andassimo da lei tanto spesso”. Nel trattamento questa paziente
mostrava un grande “terrore di ripetere” (Ornstein, 1991). Questo
terrore si manifestava soprattutto in un’enorme attenzione, in
un’enorme curiosità per i miei pensieri, per le mie reazioni. Durante la
sua infanzia una cautela e una sintonizzazione del genere erano state
l’indispensabile protezione dalla violenza. Tuttavia, la prontezza ad
utilizzare l’analista come testimone - dimostrata dalla disponibilità
precoce e stabile dei ricordi traumatici - poteva essere in relazione
alla funzione d’oggetto sé di testimonianza che le aveva fornito la sua
insegnante.
La nozione di “testimone emotivamente disponibile” ci permette di
considerare il contributo dell’analista al processo del ricordare,
secondo il punto di vista dell’intersoggettività. Ci permette, inoltre, di
descrivere un processo d’oggetto sé in cui una storia che prima non
era disponibile diventa un’esperienza che, a sua volta, contribuisce al
consolidamento del sé. La storia diventa esperienza di sé, diventa “la
mia storia”, in presenza di un altro che in qualche modo afferma:
“Tutto questo è orribile, e non dovrebbe mai accadere a un bambino”.
In realtà la testimonianza è un sottosistema del rispecchiamento,
se rispecchiamento significa risposta di apprezzamento a ciò che è di
valore nel bambino. Essa dice in modo implicito alla persona: “Ti
considero preziosa e degna di essere trattata con rispetto. Non avevi
alcun modo di conoscere l’orrore di ciò che ti accadeva perché venivi
trattata come se fossi indegna o cattiva”. Riflettere sulla
testimonianza ci aiuta a comprendere come l’umiliazione e la
vergogna ci proteggano dal conoscere l’orrore.