Pagina 21 - Self Rivista - Anno 1 n°3

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La testimonianza quindi è parte della validazione che rende
possibile la fiducia del bambino nella sua esperienza e nel suo senso
di realtà. Questa concezione ampiamente intersoggettiva ha come
assunto che il bisogno dell’ “altro” sia la condizione per la possibilità
stessa di fare esperienza. Secondo Stolorow e Atwood (1992)
“l’esperienza conscia del bambino
si articola
progressivamente grazie
alla risposta convalidante dell’ambiente” (p. 42). Nella testimonianza
sono implicite tanto la responsività apprezzativa del rispecchiamento,
quanto la responsività confermativa della validazione. La specificità
della testimonianza è il riconoscimento dell’orrore e del dolore del
maltrattamento, che altrimenti non possono diventare esperienza
consapevole in modo pieno. Il dolore può essere un’esperienza
grossolana, relativamente non organizzata. Il paziente, in altre
parole, può sperimentare un dolore nudo e crudo, ma ha bisogno di
un’altra persona che sia responsiva per costruire il dolore, per capirne
l’enormità e il significato. Insieme - analista e paziente - danno senso
al dolore.
Ricapitolando: testimonianza significa presenza di una persona
responsiva che rende possibile riconoscere a un bambino - o ad un
paziente che è stato un bambino traumatizzato - l’orrore di ciò che gli
è accaduto e di provarne il giusto dolore. Essa quindi smonta la
dissociazione e permette ad una persona di stabilire la continuità di
una vita di cui sente il possesso. Essa smonta la vergogna e restaura
la valutazione positiva di sé. La testimonianza stabilisce e mantiene
l’esperienza di sé, e merita evidentemente di essere designata come
una funzione di “oggetto sé”. Nei casi di stress post-traumatici, la
testimonianza è la forma che deve assumere la disponibilità emotiva
dell’analista.