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Ulteriori riflessioni
Dato che questo aspetto della disponibilità emotiva in psicoanalisi
ha raccolto l’interesse di un buon numero dei miei lettori, e dato che
è stato notato anche da altri autori psicoanalitici (Thomas, 1998),
aggiungerei ora alcune ulteriori riflessioni. Nella mia
concettualizzazione precedente l’intersoggettività della testimonianza
era - per certi aspetti - soltanto implicita: nel mio lavoro persistevano
ancora tracce di una mentalità cartesiana. Adesso, date le concezioni
relazionali dei processi mentali che sono state formulate nella
letteratura psicoanalitica (Aron, 1996; Atwood e Stolorow, 1984;
Atwood e Stolorow, 1993; Beebe et al., 1992; Brandchaft, 1994;
Fosshage, 1994; Jacobs, 1995; Lichtenberg et al. 1992; Mitchell,
1993; Orange, et al., 1997; Stolorow et al., 1987; Stolorow e
Atwood, 1992; Sucharov, 1994), dovrebbe essere possibile porci
qualche altra domanda.
Per esempio: cosa sono questi “residui cartesiani”? In sintesi con
questa espressione intendo il continuo fare riferimento a un pensiero
fondato sulla “mente isolata” (pur se in modo non evidente), a
concezioni oggettiviste della mente e della realtà, a ideali morali e
psicologici che implicano una fiducia assoluta in se stessi, e a rigide
dicotomie fra la cosiddetta esperienza interiore e la realtà esterna; e
così via. Una critica ampia e approfondita di questo tipo di pensiero
cartesiano - anche all’interno delle comunità psicoanalitiche che più si
dedicano a trascenderlo - è estremamente importante, ma travalica
gli scopi di questo articolo. Per ora ciò che è necessario è esaminare il
mio lavoro su questi residui.
Prima di tutto, la testimonianza potrebbe facilmente essere
fraintesa in questo modo: un analista onniscente e tutto chiuso in se
stesso fornisce conferma all’esperienza di un’altra mente isolata -