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quella del bambino o del paziente - da una prospettiva del tipo
“l’occhio di Dio”. Dato che un’impressione del genere sarebbe
comprensibile, ciò rende evidente quanto sia necessario - a rischio di
dover mettere da parte quest’idea - sviluppare una concezione
contestuale e dialogica della testimonianza. L’idea di testimonianza,
comunque, sembra cogliere qualcosa di molto potente sia nella vita
quotidiana che nel trattamento; dobbiamo quindi confrontarci con il
compito di formularla con il minor numero di assunti filosofici
pericolosi.
Queste mie considerazioni potrebbero anche essere lette, secondo
la vecchia modalità oggettivante, come un’incapacità di distinguere
fra realtà ed esistenza. Ma questa distinzione è indispensabile per il
lavoro analitico con persone sopravvissute a traumi molto grandi.
Parlando di quanto la testimonianza abbia l’effetto di produrre
consapevolezza nei sopravvissuti all’olocausto, Felman e Laub (1992)
affermano che:
«Un trauma molto grande rende impossibile il proprio ricordo: i
meccanismi di osservazione e registrazione della mente umana
sono temporaneamente messi fuori combattimento. […] Il
racconto della vittima, il processo reale di fornire la testimonianza
ad un trauma tanto grande, comincia proprio con qualcuno che fa
da testimone ad un’assenza, ad un evento che ancora non è
giunto all’esistenza, a dispetto della natura soverchiante e
convincente della realtà del suo esser avvenuto» (p. 57).
Come possiamo comprendere l’atto di condurre all’esistenza ciò che è
già orribilmente reale? Stiamo semplicemente parlando di
verbalizzare quello che è rimasto del contenuto di una singola mente
inconscia? Oppure facendo così confondiamo l’esperienza