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Egli riconosceva che le esperienze di confusione e vergogna potevano
continuare a sussistere. Per esempio Ferenczi (1929) scoprì che un
bambino odiato può codificare questa esperienza relazionale precoce
in un desiderio di morire o in un ridotto desiderio di vivere che dura
poi tutta la vita. Egli notò che convinzioni del genere, codificate in
modo profondamente emotivo, erano inaccessibili ad una terapia
fondata esclusivamente sul dialogo, e si interrogava su quale potesse
essere un’altra forma di aiuto.
Ferenczi pensava che gli adulti hanno due sistemi di memoria: la
memoria soggettiva (emotiva e corporea) e la memoria oggettiva
(degli eventi esterni). I bambini piccoli, al contrario, hanno sensazioni
e risposte solamente soggettive e corporee, e quindi hanno solo la
memoria soggettiva. Ferenczi riteneva che la memoria soggettiva
continua ad essere predominante per i primi tre o quattro anni di vita.
Tuttavia nei momenti traumatici, le persone di tutte le età registrano
l’esperienza in questo modo. “La ‘memoria’ rimane fissata nel corpo e
solo lì può essere risvegliata” (pp. 260-261). Ferenczi pensava che
non ci si può aspettare che le persone vogliano ricordare con
immediatezza e consapevolezza esperienze o traumi del genere che
sono registrati a livello corporeo. Al contrario, durante l’analisi i
pazienti fanno nuovamente esperienza del trauma: lo ricordano in
modo soggettivo. In questo modo il ricordo traumatico diventa
accessibile. In presenza di - e in dialogo con - un’altro che
comprende, un certo evento può finalmente essere sentito come
un’aggressione. Si può giungere ad un nuovo modo di comprendere
un evento che merita pienamente il nome di ricordo. La testimonianza
è più di una funzione d’oggetto sé; è un processo intersoggettivo di
realizzazione - un “rendersi conto” - che permette l’emergere di nuovi
tipi di esperienza di sé.