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Nella conversazione cresce la percezione del significato del trauma
e dell’esistenza traumatica. Invece di una ferita aperta, di una
terribile cicatrice, oppure di un silenzio tormentato e sempre più
amaro, insieme troviamo le possibilità di attraversare il dolore e di
curare. In un’altra formulazione (di cui sono debitrice a George
Atwood): nel contesto di una testimonianza recettiva e convalidante,
il trauma improvvisamente viene allo scoperto e non viene più
rivissuto e ripetuto come nelle coppie madre-bambino della Fraiberg
in “Ghosts in the Nursery” (Fraiberg et al., 1975). Ora, anche se certi
fantasmi non possono mai riposare in pace come antenati (Loewald,
1960), le realtà insopportabili della tortura, dello stupro, di perdite
che annientano, e così via, possono esistere per la coppia analitica, e
quindi possono essere integrate e incluse nella totalità della vita.
Infine, la presenza del trauma insidia il nostro senso ordinario
della vita professionale. Il vero testimone è colui che dà
testimonianza, colui che testimonia al, e con il, paziente l’esperienza
di essere in presenza di ciò che è brutalmente inumano. La
testimonianza porta alla memoria, all’esistenza, ciò che prima era
solo reale. La neutralità di fronte all’orrore è non solo impossibile, ma
inumana. Abbiamo bisogno di un’altra concezione della nostra
professione che sia più adeguata, o più in grado di misurarsi con i
crimini contro l’umanità, inclusi quelli contro i bambini. Chi non è
capace di lavorare con il trauma produce un campo intersoggettivo
che a sua volta riproduce quell’esperienza in cui i “grandi” (che siano
persone sopravvissute al trauma, o persone che l’hanno perpetrato o
semplici presenze mute) restano silenziosi.
La funzione di testimonianza dell’analisi, naturalmente, implica
qualcosa di più ampio del solo trauma. Implica il tentativo di
partecipare a dare significato ad un’intera vita. Tutto ciò non è
riducibile a una pura co-costruzione, ad una collaborazione nel