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Torniamo alla nostra domanda iniziale: quale è la differenza
più importante tra esperienze traumatiche che portano
all’annichilimento e quelle che portano alla reazione, meno grave,
della dissociazione? Le circostanze presenti nel contesto del crollo
della paziente a diciannove anni possono essere fatte risalire a un
triplice attacco al suo mondo normale – esso stesso protetto da una
costante dissociazione – che l’avevano sostenuta per tutta la vita.
Aveva perso la struttura di sostegno sociale dei suoi anni scolastici,
la madre era minacciata dal cancro e lei stessa aveva subito un
violento attacco da parte dell’ambiente fisico quando aveva avuto
l’incidente di macchina. Considerando queste perdite possiamo
forse comprendere l’enorme significato che era connesso alla sua
richiesta di aiuto alla madre nel giorno stesso del collasso, e
l’effetto devastante che aveva avuto la risposta non convalidante e
obliterante della madre a quel grido di dolore. Quella non
validazione che avveniva in un momento di estrema vulnerabilità
aveva riassunto precisamente le reazioni di entrambi i genitori
durante la sua infanzia quando lei aveva espresso un qualsiasi
bisogno in relazione all’enorme abuso al quale veniva sottoposta.
Il trauma che annichilisce è quello che sovverte l’intero modo
in cui una persona dà senso alla propria vita e che attacca i legami
di sostegno all’ambiente umano al loro livello più fondamentale; il
trauma che può essere dissociato, pur essendo anch’esso una
minaccia alle organizzazioni dell’esperienza esistenti, lascia fino a
un certo punto intatti i legami di sostegno così da far sopravvivere
una piattaforma stabile per il senso del sé in cui possono venire
incapsulati e dissociati gli eventi traumatici. Nel caso clinico che
abbiamo appena descritto una dissociazione relativamente costante
dei mondi diurno e notturno era possibile grazie alla stessa stabilità
della sfera diurna, e le esperienza di annichilimento ebbero inizio