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parole, alle metafore, ai comportamenti più incisivi che riuscirà a
trovare. Il cosiddetto delirio è questo: il tentativo di descrivere una
realtà a lungo – e da molti – misconosciuta. Penso che sia questo
che l’Autore intende quando dice: “I cosiddetti deliri del paziente […]
emergono come espressione di una soggettività assediata, prodotti
di una guerra dei mondi creata da incomprensioni e disconferme
reciproche”. Anche questa bella frase è per me centrale in questo
lavoro.
Nella cornice di questi fondamentali concetti, l’Autore ci parla di
alcune manifestazioni cosiddette psicotiche in un modo che le rende
umanamente comprensibili. Penso che il dottor Atwood dicendo “the
patient’s so-called delusions” prenda una posizione netta e
coraggiosa. Dire che un paziente delira è assumere un
atteggiamento di distacco oggettivante. E’ come dire che parla arabo
[it’s Greek to me], che è di un’altra razza, è come dire “non c’entra
niente con me”. Lo stesso quando diciamo che un paziente è
psicotico. Un’autrice italiana scrive, parlando di un suo paziente:
“a volte mi sentivo proprio ribollire di fronte al suo fanatismo
ideologico. Poi un giorno, ascoltando altri suoi discorsi caratterizzati
da continua interpretatività, mi sono detta: ‘Adesso ho capito con
chi ho a che fare! Questo è psicotico!’ Altra
differenza culturale
, non
è vero?!, fra chi è psicotico e chi non lo è. Mi sono allora ricordata
che quando un candidato mi dice di aver pensato che un paziente è
proprio psicotico, io gli dico: ‘Ma dottore, vede … pensare che l’altro
è psicotico significa etichettare, obiettivare, sottrarsi al rapporto …
Questo vuol dire che qualcosa di molto ansiogeno sta verificandosi
nella stanza d’analisi.” (Nissim Momigliano, 1991, p. 803)