Pagina 86 - Self Rivista - Anno 1 n°3

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2) Realtà, fantasia, esperienza
Troppo angosciosa, appunto. In questo lavoro compare a un
certo punto un medico che dice alla mamma di una bambina
abusata: “Non si preoccupi, signora, i bambini a questa età le cose
se le inventano”. Non c’è niente di peggio a questo mondo che non
essere creduti. “La cosa peggiore però è quando al trauma viene
opposto un diniego, ovvero l’affermazione che non è successo
niente” (Ferenczi, 1931, p. 410). Quando il dottor Atwood dice che
la prospettiva psicoanalitica intersoggettiva post-cartesiana ha
come principale punto di interesse l’esperienza dell’individuo
senza
riferimento a una realtà oggettiva
dice qualcosa che mi lascia
dubbiosa. A me sembra infatti che, nei casi descritti, l’analista sia
una persona che crede nella obiettiva veridicità delle vicende
narrate dai pazienti ed è su questa base che trasmette ai pazienti
(e al lettore) che cosa ha voluto dire per loro essere cresciuti in
quell’ambiente e con quelle persone, più vicino in questo al primo
Freud che non a tanti analisti successivi.
A mio parere, uno degli aspetti terapeutici della relazione
analista/paziente condotta secondo lo stile della psicoanalisi
intersoggettiva sta proprio in questo: nel ricostruire e riconoscere
gli aspetti traumatici reali occorsi nello sviluppo della persona.
Forse non ho capito bene cosa vuol dire la frase “La teoria della
intersoggettività è una prospettiva psicoanalitica post-cartesiana
centrata sul mondo esperienziale dell’individuo, visto nei suoi propri
termini e senza riferimento a una realtà esterna oggettiva” (p. 1).
Certamente, l’analista altre informazioni non ha se non il
racconto dell’esperienza del paziente, ma considera questa
esperienza credibile e – diciamolo con coraggio – reale e
condivisibile nella drammaticità delle sue conseguenze. E’