Pagina 88 - Self Rivista - Anno 1 n°3

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mettere le sue idee nella testa, o le sue parole in bocca, perché in
quel momento l’analista è centrato più sui propri bisogni che su
quelli del paziente. Il disagio – o la disperazione – del paziente
segnalerà all’analista che qualcosa non va. Se l’analista sarà in
grado di riconoscerlo potrà dare al paziente la dimostrazione che un
evento traumatico può accadere, può essere riconosciuto, si può
darne atto al paziente nella realtà del presente e questo renderà più
credibili le convalide già avvenute sulla realtà del passato. Gli
esempi, ovviamente, potrebbero essere molti.
Un altro aspetto mi sembra importante. Le esperienze catastrofiche
che uccidono la mente, vissute dal paziente che chiamiamo
psicotico, hanno un impatto molto duro sulla mente dell’analista e
non possono che andare a toccare le aree della sua esperienza più
penose e più fragili. Di fronte a una paziente che si sente
inesistente anche io, sicuramente, posso sentirmi impotente,
disorientata, annientata. Se mi capita di chiederle ingenuamente
“come sta?” e questo la fa sentire a distanza siderale da me, mi
sento ancora più impotente, ma ho l’occasione, se riesco a capire,
di vivere con lei un evento potenzialmente molto più costruttivo di
tante ricostruzioni storiche nelle quali io non c’entro. Il paziente
gravemente traumatizzato è molto poco tollerante, gli errori
dell’analista lo fanno stare molto male e questo diventa un
elemento traumatico per l’analista stesso. Un mio paziente, quando
sente una mia parola “sbagliata”, o anche semplicemente il tono
non va bene o faccio una pausa di troppo, si mette a picchiare la
testa nel muro e si copre di lividi. Io mi sento disperata e rischio di
commiserare me invece che provar pena per lui. Quando però
riesco a farmi condurre da lui sul luogo dell’errore e capisco che “io
sono peggio dei suoi genitori; altro che parlar male di loro!”, sento