morte del padre che si è già tanto ridimensionato da sé, ma desidera soprattutto una
vita sua, può al tempo stesso sentirsi utile, efficiente, competente, tanto che il padre,
di fatto, gli affida la gestione delle varie trattative. Ma stavolta P. non è sopraffatto. A
distanza di sicurezza, da casa sua, e affiancato dalla sorella, gestisce i passaggi finali
della vicenda, e con un certo successo. Il senso di colpa, già molto ridimensionato,
scompare. I libri di studio sono ora anche gli strumenti di questa competenza e così
ridiventano contenitori di nozioni da apprendere, senza essere più fonte di sarcastiche
autocritiche sul suo aspetto fisico e il suo deterioramento mentale. P. riprende a
studiare con efficacia e finalmente ritrova anche il coraggio di andare a sostenere
l’esame, ovvero affrontare quella che era la personificazione del giudizio spietato che
lui dava di sé. Come si sente l’analista di fronte a questa rinascita del sé? Commossa,
contenta, orgogliosa. Sì, orgogliosa, perché finalmente le possibilità, che intravedevo
in lui, riemergevano in modo sicuramente anche più maturo rispetto al passato. La
fiducia nel vederlo laureato, in una materia che comunque amava, e quella che
potesse riprendere a suonare liberamente, anche a improvvisare, senza sentirsi
schiacciato dall’inadeguatezza. Questa attesa, alimentata per anni in modo pressoché
solitario trova ora la sua realizzazione. Forse il mio sguardo è arrivato dopo quello
distratto, in qualche modo ignaro, dei genitori di P. che, in modo diverso, hanno
continuato entrambi a non vedere la sofferenza del figlio e, ancora prima, a non
riconoscerne le aspirazioni e progetti. Certo, per mantenere la fiducia, in questi
quattro anni di analisi che è andata come vi ho descritto, non ho potuto far ricorso ai
solidi supporti di una psicoanalisi fondata sulle interpretazioni. La possibilità di
interpretare semplicemente non si poneva, in un contesto relazionale in cui mi sentivo
massimamente impegnata, con la continuità della mia presenza e del mio ascolto, a
convalidare la consistenza, la continuità e l’unicità di quei mondi separati in cui venivo
accettata, a patto di garantire una sorta di non aggressività. Ascoltatrice
prevalentemente silenziosa, condividevo con P. uno spazio in cui gli affetti feriti, e le
sue passioni, riuscivano a toccarmi anche in quella modalità che così poco spazio dava
all’Altro.
Adesso P. mi parla comunque in modo preferenziale di un tema, ma stando in uno
spazio condiviso in cui ascolto sempre con piacere le sue dissertazioni musicali, un
mio commento viene ripreso, e poi P. mi rimanda la sua riflessione, dopo qualche
minuto in cui lo vedo assorto, pensando a quel che ho detto, senza la fretta
angosciata di fuggire via da quello che viveva come una brusca irruzione nel suo
mondo. La modalità di condivisione, ancora iniziale, timida, ha bisogno all’inizio di
supporti concreti tra me e lui, che io sento in qualche modo come intermediari,
elementi facilitanti il contatto e la comunicazione. Come una specie di “oggetti
transizionali”, per es. quando P. porta con sé in seduta il libro sul quale sta
preparando un esame e dal quale non si separa mai in quelle settimane. Mi dice “non
so se lo potevo portare, però ti volevo far vedere dove sono arrivato” ed apre ad una
pagina, tutta sottolineata a matita, con note ai margini. Faccio qualche domanda, e lui
rapidamente mi dice. Non si dilunga sul tema, ma si vede che è piuttosto soddisfatto
di mostrarmi la sua competenza. Mi tengo il libro un altro po’, sfogliandolo, leggendo
qualche nota sua, incuriosita di sapere dove si sia soffermato e notando anche la sua
calligrafia, minuta ma chiara. Mi sento in un contesto più mutuo e caldo, in cui,