diverse, purché separate. I tre temi costituiscono sentieri differenti, dotati di una loro
autonomia, ma che si possono interconnettere in vari modi. Se P. comincia a parlare
della musica, tutta l’ora parla solo di quello, però anche il computer entra, perché P.
scarica musica dal computer e poi nel tempo, in modo sempre più raffinato, compone
musica, la registra, la modifica, la assembla, sempre tramite computer. Ma
quest’ultima è storia recente. Torniamo alla danza che P. intraprende, nella sua
modalità di proporre in terapia la crescente esplorazione di mondi separati. In questo
periodo, quando sto con lui, ho la percezione che potrei anche alzarmi e andare via, e
P. non se ne accorgerebbe. Non mi guarda proprio, o meglio, io non so dove guardi,
perché non toglie gli occhiali scuri. Le domande interlocutorie, come dicevo, hanno
pochissimo successo. P. il più delle volte le ignora, sembra proprio non sentirle. Altre
volte si ferma, sento una certa perplessità, come avessi detto una cosa del tutto
incongrua, mi risponde con la solita modalità laconica e poi riprende il suo fluente
monologo. Lo spazio terapeutico in quel momento è solo una cornice, o meglio un
confine all’interno del quale si sente in grado di parlare, liberamente e con sicurezza,
in modo competente ma anche appassionato, di quei punti di riferimento ancora
riconoscibili all’interno di un mondo profondamente danneggiato, nuclei di vitalità
ancora densi e pieni di potenzialità. L’interlocutore ancora non è pensabile, o proprio
P. non si aspetta un interlocutore che si occupi realmente dei suoi interessi, della sua
vita. L’altro, un altro partecipe, è davvero per lui una possibilità ancora inesistente.
Anche attualmente, sebbene per gran parte del tempo mi senta “con” lui, ci sono
diversi momenti in cui sento che la connessione si è interrotta, P. sta andando per
conto suo. Ma allora era sempre così, mi sentivo sola, e pensavo così alla sua
solitudine, che in qualche modo mi riproponeva, e poi mi veniva in mente
l’intersoggettività, l’inconscio non convalidato e quello preriflessivo, sede dei principi
organizzatori. Quali potevano essere i principi organizzatori dominanti in un mondo
così? Riecheggiava una delle frasi ricorrenti di P. “no, ma tanto va bene pure così” la
minimizzazione della sofferenza e delle sue devastanti conseguenze. Il principio
organizzatore prevalente poteva essere, per esempio, che, per essere accettati, non
bisogna far vedere la sofferenza, stare male poteva costituire una specie di “affronto”
rispetto ai genitori, qualcosa di presuntuoso ed inopportuno, in grado di turbare il
“tranquillo” fluire della quotidianità familiare. La reazione alla solitudine che provavo
in seduta era questa: ritirarmi nel mio mondo, nelle mie passioni, pensando a
interpretazioni teoriche come rassicuranti oggetti giocosi. Il tono appassionato con cui
P. dissertava per es. di musica in qualche modo manteneva un filo tra noi, ma era
molto vicino all’ascolto di una conferenza in TV, ovvero, con nessuna possibilità di
interloquire, infatti quando intervenivo mi sentivo come quelli che fanno commenti ad
alta voce davanti ad un film,o ad una trasmissione con ospiti, aggiungendo la loro
inascoltata voce a quella degli ospiti in studio. Se le nostre menti vicine si fossero
visualizzate, avremmo visto fili di pensieri paralleli con alcune sporadiche
congiunzioni, due temi musicali separati con alcune assonanze. Sento che è stato un
tempo non sprecato, che ha avuto un significato, anzi molti di più di uno per Piero: la
possibilità di ricominciare a ricontattare ed esplorare quei mondi vitali, appassionati,
della musica soprattutto, ma anche dello studio, e poi l’informatica, come espressione
di una grande creatività che coinvolge sia la musica che lo studio (ultimamente P.
integra la sua preparazione di un esame universitario con lezioni che trova su