sono andati a vuoto. Stefano - che vive in casa con la madre - lavora alle poste da
diversi anni e nutre una grande passione per gli animali, soprattutto i cani, passione
che attiva anche facendo l’istruttore per il salvataggio in mare. Alla fine della
secondo incontro - quando tutte queste notizie sono state esplicitate - accordandoci
per cominciare un percorso psicoterapico sorgono problemi di orario: nei giorni che
torna presto dal lavoro non se la sente di lasciare il suo cane da solo, gli altri giorni
può la sera tardi in orari che ho già tutti impegnati. Sembra non ci siano soluzioni.
Allora si arrischia a chiedere: “non potrei venire col cane?” Io rispondo senza
esitazioni: “certo che può!”. Il volto di Stefano si illumina in un sorriso misto di
sorpresa e sollievo. Si aspettava un rifiuto, sapeva, avendo già avuto altre esperienze,
che “non si va in analisi con il cane”, allora perché domandare? E’ stata una di quelle
modalità ripetitive che mette in atto con le ragazze per farsi scaricare subito
sentendosi poi indegno e colpevole - come aveva detto nel corso della seduta: “faccio
qualcosa che non va, non so cosa… sono io che non vado bene”. Sicuramente, ma
implicita c’era anche la speranza che le cose andassero diversamente, speranza
probabilmente sostenuta dal fatto che parlandomi del suo impegno con gli animali lo
avevo rispecchiato con calore. Focalizzandomi sulle modalità ripetitive avrei potuto
interpretarle o forse, semplicemente, dire no cercando di trovare un accomodamento,
ma un occasione si sarebbe perduta. Dal punto vista evolutivo la sua era un apertura
e un rischio che correva, non si poteva dire no. Accettando senza esitazioni - perché di
fatto fare una seduta con un cane nella stanza non mi disturba per nulla - ho violato le
aspettative di rifiuto, cosa che ha portato a un momento condiviso di intensa
affettività positiva. Così io Stefano e il suo pastore tedesco Shone, abbiamo
cominciato un percorso che non sarà privo di difficoltà, ma si avvia con un piccolo
tassello di buon adattamento reciproco.
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Valeria - una ragazza sulla trentina che vedevo da diverso tempo - mi aveva
parlato alcuni mesi prima di un ragazzo, Riccardo, conosciuto nella comitiva del
fratello, con cui aveva passato dei bei momenti insieme. Avevano scherzato, riso,
guardato le foto di un suo viaggio in India… La cosa che la faceva stare bene, senza
conflitti, era che non provava nessun coinvolgimento sentimentale nei suoi confronti,
era più giovane di lei di qualche anno, lo chiamava il “cucciolo”, qualsiasi attrazione
amorosa era fuori discussione, e quindi non si sentiva giudicata e, soprattutto, non si
giudicava come accadeva usualmente quando interagiva con ragazzi che la
interessavano. Aveva avuto varie storie in cui spesso era stata lei ad essere più
coinvolta sentimentalmente, storie che di solito non duravano a lungo, lasciandole la
sensazione di non aver mai vissuto una “vera” relazione.
Un giorno mi racconta che Riccardo - che aveva rincontrato sporadicamente - le
aveva dichiarato con insistenza il suo amore. Naturalmente non ne era seguito nulla -
“è un ragazzino” - aveva detto, chiudendo il discorso senza che potessi aggiungere
qualsiasi commento, passando ad altre comunicazioni su problematiche più impellenti
riguardanti la vita lavorativa e formativa. Sta di fatto che dopo quella seduta lo stato