sfinirsi. “Se si allontanava minimamente da questa esistenza ritualizzata veniva invaso
da terribili presentimenti. Era costretto a concludere ciò che suo padre aveva sempre
sostenuto: che la sua insistenza nello scegliere personalmente la propria vita, e la non
accettazione del fatto che il padre la scegliesse per lui, costituiva una indiscutibile
dimostrazione della sua stupidità o caparbietà. (…) Qualunque fugace sentimento di
benessere, fiducia, entusiasmo o speranza, che Patrick esperisse nelle sue sedute si
sarebbe regolarmente dissolto, implacabilmente rovinato da qualche pensiero
autosvalutante, (…) fedele riproduzione di ciò che accadeva quando Patrick era con se
stesso.” (Brandchaft, 1991; pag.106). In questo automatismo Brandchaft evidenzia
l’espressione di un conflitto tra modi impliciti diversi e inconciliabili di organizzare
l’esperienza di Sé, in cui la prospettiva che spoglia il Sé da ciò che è squisitamente
personale è sempre destinata a prevalere. Espressione di quella struttura di
adattamento che obbliga le persone come Patrick a continuare a definire se stessi
rispetto ai bisogni e ai timori dei genitori; a quanto riescono, o non riescono, a
soddisfare quello che si aspettavano, o non si aspettavano, da loro.
Tale modalità produce una tenace resistenza al cambiamento precludendo la
possibilità di esaminare e modificare le strategie relazionali inconsapevoli - consolidate
attraverso la memoria procedurale, implicita e non dichiarativa - che riproducono e
perpetuano il legame con i genitori internalizzati.
Per Patrick, sottolinea Brandchaft, - come per il giovane signor Z descritto da
Kohut (Kohut, 1979) - accogliere il nuovo - mettendo in discussione i modi usuali di
organizzare l’esperienza di essere nel mondo - comportava l’acuta e profonda
angoscia di perdere un legame primario e rimanere soli, esposti al terrore della
frammentazione, della dissoluzione e la perdita di Sé.
L’invarianza di tali modalità organizzative - e la tenace resistenza ad essere
modificate nella terapia - è quindi connessa psicologicamente alla loro continua
relativa validità adattativa (Fosshage, 2002).
Prendendo in considerazione i profondi vissuti di vergogna e umiliazione
derivanti dalle traumatiche esperienze di rifiuto cui sono stati oggetto persone come
Patrick da parte degli accudenti significativi, le strategie relazionali consolidate - nella
loro relativa validità adattativa e relativa invarianza - avranno anche la funzione di
rendere tollerabile questo sentimento di fondo, impedire il ripetersi dell’esperienza del
rifiuto e appagare al tempo stesso la rabbia e la vendicatività per la ferita ricevuta
(Pallier, Soavi, 2009).
Se Kohut considerava le resistenze al cambiamento il tentativo di proteggere un
fragile Sé dalla frammentazione - evidenziando il deficit di una struttura psicologica
inadeguata a sostenere il sovraccarico psichico di bisogni evolutivi rimobilitati nella
loro forma arcaica - Brandchaft - pur usando ancora una definizione non adeguata
all’attenzione ai processi di una prospettiva sistemica - col termine “struttura” di
adattamento descrive l’esistenza di un soggettività comunque formata. E quando, un
po’ enfaticamente, definisce le resistenze “l’attitudine degli eroi di fronte
all’oppressione” (Orange, 2010), vuole sottolinearne la lotta per la sopravvivenza
psicologica, lo sforzo per mantenere un, pur coartato, senso di agency individuale, in
un contesto relazionale sfavorevole o sentito potenzialmente tale.
L’etica insita nei modelli psicoanalitici contemporanei ha ormai fatto proprio il
passaggio dal “sospetto” - sottostante alla teoria della tecnica di Freud - al “rispetto”
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