disperato). L’impressione era che non fosse consapevole della sofferenza che poteva
provare sia dalla mancanza dell’analisi, come in passato delle conseguenze emotive di
lavorare tutti i giorni a fianco del padre con l’idea della “successione”. Elementi di
dissociazione, e l’incapacità di valutare l’entità della propria sofferenza e il peso delle
conseguenze, (almeno in parte…) come se mancassero parametri di riferimento….
Come è soffrire “tanto”? (e quindi quali possono essere le conseguenze?). Si ritrovano
elementi di dissociazione anche nel contatto con i genitori, in particolare penso alla
madre, e al fatto che Piero me ne ha sempre parlato come di una persona molto
attiva, che aveva trovato nel suo lavoro di infermiera una realizzazione ed autonomia
anche economica (nonché, pensa l’analista alla luce del contesto generale, anche una
via di fuga dall’essere anche lei arruolata a tempo pieno nell’azienda). Una madre
attenta a che il figlio studiasse, stesse “bene” in senso generico, in una modalità in
cui, di fatto, non c’era confidenza o intimità. Ora P. parla della madre come di una
persona “nervosa e imprevedibile”, nel senso di apparenza di tranquillità (per esempio
nel dialogare con i figli su varie questioni), per poi svelare però quasi sempre
atteggiamenti di recriminazione, rimprovero, chiusura. Tuttavia P. accentua gli aspetti
“buoni” della madre (“con lei si può pure parlare quando è in buona”), ma quello che
arriva a me è soprattutto il non riconoscimento del disagio del figlio, tra superficialità
e inconsapevolezza.
P. comincia l’Università, facoltà di Economia e Commercio, scelta da lui con
l’approvazione di tutti, contemporaneamente comincia a lavorare in azienda a tempo
pieno. Studia, in tre anni riesce a sostenere otto esami, ma l’Università, e Napoli,
appaiono sempre più lontani e la quotidianità dell’impegno lavorativo, l’impossibilità di
frequentare le lezioni, la stanchezza che rende lo studio difficile, il contatto giornaliero
col padre ed il ruolo sempre più definito di responsabile dell’attività , costituiscono
man mano una trama opprimente ed inestricabile.
P. si sente sempre più angosciato, tuttavia non parla a nessuno di questo disagio così
forte. Man mano allenta le relazioni con gli amici, esce quasi sempre da solo a fare giri
in macchina o con la moto. Comincia a vedersi brutto, “da allora non ho più avuto i
riccioli e i capelli hanno cominciato a cadere”. Suona sempre più raramente il
pianoforte perché non ne ha voglia e perché”…mi sembrava che venissero fuori tutti
pezzi qualunque, senza capo né coda…” E’una vita che si va svuotando, di relazioni,
interessi, ma nessuno della famiglia sembra accorgersene finchè, dopo due anni
dall’inizio di questo “percorso”P. una mattina non si alza per andare al lavoro, si sente
debolissimo e non ce la fa. Comincia a trascorrere a letto gran parte del tempo, non
va più a lavorare, ma non fa niente altro. Mangia poco, dimagrisce, dorme molto. I
genitori ora preoccupati gli fanno fare un completo check up medico che non evidenzia
nessuna patologia organica. Segue visita neurologica. Il neurologo diagnostica
depressione grave e prescrive un trattamento farmacologico che P., il quale aveva
passivamente accettato la visita, si rifiuta però di prendere. Rimane molto tempo nella
sua stanza con i libri e il computer che però, in quel periodo, usa solo per far girare
giochi elettronici che può, come si può prevedere, giocare da solo. A 6 anni dall’inizio
dell’analisi (e più o meno otto da quel periodo) P. mi definisce quel momento ”proprio
brutto, stavo proprio male”, ma una narrazione che dia conto, faccia “passare” tutta la
sofferenza che c’è stata, è assente. Trascorre un anno, nel frattempo la sorella,
completato il liceo, ha intrapreso a sua volta l’Università. I genitori hanno una casa al