complessivo dell’altro (terapeuta), espressione della sua inerzia alla decostruzione
traumatica intersoggettiva e intrasoggettiva. Così attraverso la qualità autentica,
reale, spontanea dei suoi gesti l’analista si oppone alla sua 'ermeneutica' de-
realizzazione da parte del paziente e della sua soggettività traumatizzata. L’autenticità
del terapeuta pone una sorta di ‘marcatura’ (Fonagy et al. 2002) all’esserci psicologico
del paziente. Una marcatura, questa, che apre la strada alla conoscenza per
differenziazione. Con il tempo posso scoprire, come paziente, cosa mi appartiene
(autenticamente?) e cosa appartiene all’altro, ciò che sono io e ciò che non sono,
costruendo nuovi confini forse più stabili e chiari.
L’autenticità introduce, quindi, un limite in confronto al quale mi sento, ci sono, mi
percepisco. La qualità autentica della mia presenza, come clinico, diventa funzione
terapeutica di per sé perché incontra il bisogno di realtà, di verità, di spontaneità
soggettiva e intersoggettiva del paziente traumatizzato, diventando possibilità di
riappropriazione (o appropriazione primaria vera e propria) di una appartenenza a sé.
Abbiamo una soggettività che si esprime in atti (in senso molto generale dal valore
sostanzialmente performativo), di cui si può avere percezione di autenticità che può
produrre così un senso di soggettualità. La relazione è circolare: la percezione di una
costante nel tempo e nello spazio di un’invarianza “egoica” (sebbene illusoria per dirla
con Bromberg e Mitchell) sollecita un senso del sé, di appartenenza a se stessi di
quell’esperienza immediata (“io sono”, “io sento”).
Soggettualità è questa appartenenza a sé della propria soggettività, un senso di
appartenenza a sé in uno spazio e in un tempo situato che permette di percepire quel
“illusorio senso di continuità”, di coerenza, d’integrazione mediata dalla qualità
autentica del vissuto di sé e in sé. Per dirla con Mitchell, soggettualità potrebbe essere
quell’esperienza che ci fa dire di essere “il tipo di persona che ognuno percepisce di
essere quando fa quel che fa con le altre persone” (1993, p.119) e aggiungerei anche:
sente quel che sente, prova quel che prova, pensa quel che pensa.
Posso rappresentare quel senso durevole del Sé come “me stesso” e
assegnargli un contenuto specifico a cui la mia esperienza attuale può
corrispondere oppure no e che permette di sentirmi molto “me stesso” o
“non me stesso” (Mitchell, 1993, p.119)
L’inemendabilità della realtà ontologica dell’altro (terapeuta) nella sua autentica
presenza psicologica può facilitare tale processo di appropriazione di una identità
vissuta ma anche rappresentata come centro di iniziativa che permette l’organizzarsi
di un significato di me come “senso di me” (soggettualità) che rinforza, a suo tempo, il
senso di appartenenza a sé (autenticità di ritorno della propria soggettività). Questo
introduce variabili virtuose nel “sistema” quali il “sense of agency” e il “sense of
authorship” (Strenger 1995) sulla propria esperienza, sugli atti soggettivi e sulla
forma dell’organizzazione dei significati di “me stesso” e del mondo avviando insieme
ad altri fattori terapeutici (interpretativi e non) la riappropriazione di un proprio
destino.
Riassunto