Non solo l’impasse ci avvisa di un processo dissociativo tra mente e corpo, ma io
credo - come ho già proposto (2008) - che la dissociazione sia un processo che
chiama
sempre
in gioco la frattura del senso di sé lungo la linea (immaginaria
ovviamente) in cui mente e corpo funzionalmente s’integrano. In questo caso, per
riprendere un esempio precedente, è come se perdessimo la capacità di utilizzare
l’adrenalina, normalmente sollecitata dall’intreccio tra l’esperienza di vita e la nostra
soggettiva reattività, a sostegno della nostra assertività. Di base, la dissociazione
mette in atto l’impossibilità di fare uso delle risorse presenti nel sistema (i nostri
schemi corporei di base, come quelli a sostegno dell’attivazione dell’adrenalina, ad
esempio) a causa della deviazione delle nostre motivazioni verso immagini di sé non
congrue allo stato oggettivo – come accade nell’anoressia, ad esempio – ma pur
tuttavia necessarie a supportare l’unico senso di sé idealmente accettabile.
L’immagine che Mario “vede” attraverso il suo sguardo è molto lontana dall’esperienza
contratta e paralizzata del suo corpo. La dissociazione tra lo schema corporeo in atto e
l’immagine di sé, di fatto, è spesso sperimentata soggettivamente come assenza di
vitalità e di capacità trasformativa (agency), ed è contrassegnata dalla difficoltà a
individuare i propri bisogni e le strategie necessarie a soddisfarli.
Mario evoca la sua esperienza dissociativa quando descrive il malessere per la sua
terapeuta:
“
agitazione… eccitazione forse!… come se dovessi raggiungere una meta che non
riesco…. la mia mente è bloccata, come se fosse paralizzata… così (…) sopraggiunge
l’angoscia che possa succedermi qualcosa… di fisico”
L’immagine del Sé cui Mario tende è desiderabile ma non raggiungibile. Tra
Mario e il suo desiderio si frappone, con prepotenza, la zavorra di un corpo paralizzato
dalle contratture. Lo stato dissociativo, oltre a limitare lo spettro dell’esperienza,
compromette l’organizzazione coerente del Sé. Per questo non è possibile avere
accesso a quella capacità che Bucci (1997) definisce
referenziale
, cioè all’abilità di
descrivere con le parole l’esperienza che abbiamo di noi stessi in continuità con i
nostri eventi interni più profondi. Bucci, ritiene infatti che questa capacità sia
subordinata al raggiungimento di un senso coeso e unitario di sé. E questa non è la
condizione sperimentata da Mario.
Per diverso tempo Anna esplora, con Mario, l’esperienza che egli ha del suo proprio
corpo cogliendo con sensibilità ciò che affiora alla consapevolezza di entrambi
attraverso l’implicito annidato tra le parole scambiate e le metafore che, spesso,
paziente e analista creano per “dare corpo” - consistenza, realtà - al discorso verbale.
In caso di traumi, però, in cui non ci sono parole per descriverne l’esperienza, la
memoria affettiva si ancora all’organizzazione somatica, e il discorso simbolico è
spesso inaccessibile. Tale incapacità è tipicamente attribuita ai pazienti somatici, ed è
nota come
alexitimia.
E’ affatto infrequente che analista e paziente, in queste
situazioni, condividano la suggestione che il significato somatico sia come un’isola
percettiva che, insieme, non possono raggiungere (Amore, 2012).