Certamente le risposte a queste domande possono essere molteplici, articolate e
differenti. Vorrei però puntare l'attenzione su un particolare aspetto: vorrei, infatti,
porre lo sguardo su come l’autenticità possa veicolare una particolare funzione
nell’organizzare e costruire, nell’incontro con l’altro significativo, una soggettualità
metarappresentazionale a partire da una soggettività traumatica.
Abbiamo detto che il trauma distrugge e disarticola le rappresentazioni primare e
secondarie, annulla e scardina i confini dentro-fuori, me-altro, io-me, me-me stesso.
Nel trauma la soggettività si costruisce per adattamenti autoplastici (Ferenczi 1932),
si struttura e si organizza in relazione a spinte soverchianti che danno come risultante
un’incerta appartenenza a sé, un’insufficiente sentimento di essere e di esserci, un
vuoto incolmabile di esperienza, di significato, di senso, un vuoto nella propria agency
che, sovente, diventa unicamente reattiva, un vuoto, per dirla con Strenger (2005),
nella costruzione e nella percezione della propria authorship soggettuale. Più che
compiere azioni sono compiuto da esse, sono agito da motivazioni non mie, da
desideri e bisogni che vedo accadere in me piuttosto che essere espressioni mie e di
me. Sento anche difficoltà a riconoscermi nella forma del mio essere affettivo e
relazionale soprattutto in contesti di intimità e vicinanza.
Questo mondo traumatico pone vincoli di fedeltà, spesso assoluti, alla costruzione
della propria soggettività e al riconoscimento possibile del proprio senso di "egoità"
(Ogden 1986). Non sto parlando solo di costruzioni di significato rispetto a quanto
avviene dentro di me, intorno a me e nell’altro insieme a me (percezioni di stato,
contenuti specifici) ma di quell’ipoteca soggettiva di carattere più ampio sulla
possibilità stessa di significare tutto ciò. Sono processi, questi, complessi, impliciti,
molto spesso silenziosi, di adattamento reciproco e di accomodamento sotto soglia,
processi che accadono nel corpo di Sofia e nel mio, nei nostri corpi in relazione e nel
'corpo' stesso della nostra relazione, con le loro memorie incarnate, dissociate,
frammentate, confuse, incontestabili. Questi stati del sè, questi processi nella
relazione, impongono limiti di creatività e immaginazione nella percezione del mondo,
di noi stessi come parte del mondo, quali oggetti e quali soggetti del mondo stesso.
Questo ambiente evolutivo, inevitabilmente intersoggettivo, lo ricordo, non solo mi
dice (con gradi di libertà e negoziazione differenti) come sono io, come sono io in
rapporto ad altri, come sono io in rapporto a me, ma impone anche vincoli rispetto
alla possibilità di generare nuovi significati tout court. Il linguaggio non denota
solamente, connota e non fornisce solo segni (parole e immagini) per ciò che accade.
In maniera più complessa e sfumata definisce le aree semantiche specifiche ai segni
stessi, traducendoli in simboli e rappresentazioni con una maggiore o minore
possibilità e flessibilità di trasformazione imponendo inoltre ‘regole sintattiche’ di
combinazioni probabili (narrazioni) e definendo infine i contesti pragmatici
affettivamente orientati in cui quelle narrazioni possono prendere vita e trasformarsi
in azioni relazionali intersoggettive.
In questa prospettiva anche la costruzione meta rappresentazionale, autoriflessiva
(Michell 1993, Aron 1998) della soggettualità, assume sovente i caratteri di una
identificazione difensiva (spesso di carattere adesivo) a soggettività agite e imposte
da altri che ordinano, predispongono e costruiscono, in via, il più delle volte,
procedurale e implicita, vincoli di lealtà e sicurezza, spesso indissolubili.