sullo sguardo, sul “guardare” e sull’“essere visti o meno”, entrano in questa
comunicazione sugli affetti d’odio
.
7. I supporti riflessivi offerti dalla filosofia, dalla narrativa e dalla poesia.
C’è un secondo filo a sostegno delle riflessioni svolte in questo lavoro, un filo
intrecciato intorno a riflessioni filosofiche sull’odio e ad immagini mitiche e letterarie
su mostri, il cui sguardo pietrifica e sui vincitori di mostri. Il percorso riflessivo del
terapeuta si è sostenuto molto sul conforto offertogli dalla letteratura e dalla filosofia,
in specie nei momenti in cui più forte era l’impatto degli affetti di odio su di lui,
quando sentiva di essere sul punto di soccombere o di rispondere all’odio con l’odio.
8. Un esempio: la lettera dell’uomo del sottosuolo di F.Dostoevskij.
Dato che le prime minacce giungono attraverso lettere anonime, già una prima
occhiata al loro stile può far venire alla mente la lettera che ”l’uomo del sottosuolo” di
Dostoevskij scrive al suo offensore per opprimerlo e, allo stesso tempo, conquistarlo
(anche se, all’inizio di ogni persecuzione tutto è più implicito, confusamente
minaccioso, e l’ambivalenza è meno limpida).
La lettera dell’uomo del sottosuolo vorrebbe essere offensiva ma, in fondo, è solo un
appello angosciato: “Gli scrissi una bellissima e attraente lettera, supplicandolo che mi
facesse le sue scuse; in caso di rifiuto, poi, accennavo abbastanza chiaramente a un
duello. La lettera era scritta con tale garbo che se l’ufficiale avesse avuto appena il più
piccolo sentimento “del bello, del sublime” mi sarebbe senz’altro corso incontro per
gettarmisi al collo ed offrirmi la sua amicizia. E quanto sarebbe stato commovente,
questo! Avremmo vissuto tanto felici, tanto felici!” (F.Dostoevskij, 2002, pag.54).
9. L’odio ci chiama a “diventare parte del problema e non già la soluzione”.
Ma quelle lettere contenevano anche la minaccia per l’analista di “essere sopraffatto
dalla distruttività dell’immagine che il paziente ha di lui, quando la realtà del paziente
è: “lei mi intossica: mi ha fatto ammalare, mi ha reso pazzo e incapace di funzionare”.
In questi casi l’analista non può accettare questa immagine senza perdere la propria
realtà … la sintonizzazione con il paziente può sembrare una sottomissione … ma, ad
un tempo, “l’interpretazione viene letta dal paziente come il tentativo dell’analista di
essere quello sano di mente: preferisce che io mi senta pazzo piuttosto che essere lui
quello che si sbaglia” (J.Benjamin, 2002, p.9). E allora, che fare? Se, seguendo
S.Mitchell, dobbiamo “diventare parte del problema e non già la soluzione” (p. 5),
“sopravvivere, annegando nel transfert, ma senza che sia possibile, camminare sulle
acque” (p. 11) come negoziare, nei fatti, un simile paradosso?
10. Chiedersi cos’altro che non sappiamo potremmo stare facendo o dicendo
Come ci suggerisce Donnel Stern: “l’obiettivo più importante del terapeuta alle prese
con un enactment non consiste nel ritrovare in qualche modo la sua normale capacità
i
E’ bene, infatti, ricordare che solo per qualche seduta ciò che avviene tra i protagonisti si è svolto al
riparo (del resto spesso malcerto) della stanza d’analisi. Prendere in considerazione anche quello che è
successo fuori della cornice analitica potrebbe risultare improprio in questa sede. Dal mio punto di vista
appare, invece, molto utile se si vuole comprendere meglio la complessità di quanto è contenuto nella - e
dalla - cornice analitica in genere, ed ancor più se in presenza di affetti d’odio.