interna e esterna e un adeguamento affettivo che ha prodotto un difetto perdurante
(tra le altre cose) nella percezione di sé e di se stessa come se stessa, di
appartenenza a sé e a un mondo che conosce e non conosce nello stesso tempo,
familiare ma estraneo, sicuro ma pericoloso.
L’esito finale di questa organizzazione soggettiva non è stato unicamente la mancanza
di un "centro di esperienza" articolato e flessibile (Mitchell 1993), ma anche l'assenza
di un senso di agency autentica nel generare l’esperienza stessa e i suoi significati
nell'intimità delle relazioni. Ciò che manca, in Sofia, è la percezione di una libertà
spontanea che caratterizzi i suoi pensieri e le sue azioni. Certamente essa ha spesso
l’idea (e la mostra in seduta) di una reattività costante nell’incontrare il mondo, gli
altri, se stessa e lei stessa mentre fa tutto questo. È una soggettività che l’ha ‘salvata’
e l’ha ‘imprigionata’, che nel contempo l’ha ‘liberata’ dall’imprevedibilità traumatica
ma l’ha ‘incatenata’ a una sicurezza rigida e soffocante. Il tempo soggettivo (e così
anche il tempo della relazione con lei) spesso si curva sotto l’attrazione gravitazionale
del trauma e dei suoi effetti (Stolorow 2011). Ma si curva e si sfrangia anche la
percezione della propria soggettualità benché residua, marginale, spesso solo
appercepita. La percezione di uno spazio potenzialmente ‘metaforico’, uno spazio
capace di portare oltre, di introdurre il ‘come se’, di rompere questa temporalità
ricorsiva e questa organizzazione bidimensionale del Sé attraverso nuovi ‘simboli’ (uno
spazio tridimensionale), attraverso nuovi processi di significazione, di
rappresentazione, scompagina immediatamente la rigidità del suo sistema soggettivo
adattivo. Colpa, vergogna, gelosia, invidia, rabbia, angoscia, paura, quando non vero
e proprio terrore, annichilenti e frammentanti, sono alcune delle emozioni che
compaiono. Ma appaiono anche seduzione, ricatto, frustrazione, senso di impotenza
legati ad un accudimento desiderato con tutto il cuore e mai ottenuto, legati a un
riconoscimento di questo bisogno mai rispecchiato ed sperimentato, se non a ruoli
narcisisticamente invertiti. Così il pensiero si congela, le azioni si disarticolano,
diventando ‘pesanti e scoordinate’, gli obiettivi terapeutici si oscurano rendendosi
opachi, privando ciascuno di noi (io e lei mentre siamo insieme in seduta) della libertà
di potersi svincolare da un copione che ci inchioda a ruoli relazionali mortiferi anche
se, ribadisco, paradossalmente e residualmente ‘vitali’.
È in questo contesto di cura, in questo contesto soggettivo e intersoggettivo che
nascono le domande sul valore e sulla funzione dell’autenticità nel processo
terapeutico. La letteratura psicoanalitica in ambito relazionale individua questo come
un aspetto fondamentale nel processo di cambiamento.
Ma cosa succede quando Sofia mi chiede in seduta cosa penso di lei, cosa penso
rispetto a ciò che sta accadendo, quando chiede conto dei miei affetti, delle mie
percezioni in relazione a ciò che succede e alle sue percezioni su di me e alle mie
percezioni di lei che mi percepisce? Cosa succede quando nel contesto
affettivo/relazionale del momento presente della seduta afferma di “essere autentica”
(spesso da intendere come: “Non dico bugie, non sono manipolatoria”) o sente che io
lo sono o non lo sono affatto? E che valore posso o devo attribuire a questa
preoccupazione costante di Sofia rispetto ai miei pensieri, al loro fondamento affettivo,
alla qualità della mia esperienza con lei, alle mie specifiche intenzioni in relazione al
nostro lavoro e al suo cambiamento?