otterremmo probabilmente una serie di narrazioni su avvenimenti relazionali e affettivi
che l'hanno accompagnata, otterremmo una descrizione di ciò che é accaduto
piuttosto che una definizione di ciò che l'autenticità é o pensiamo che sia. Risulta,
infatti, difficile e, per lo scopo di questo lavoro, più interessante, provare a descrivere
il concetto. Appena c’incamminiamo per questa via, scopriamo che il significato di
autenticità mostra, per così dire, insospettate caratteristiche proteiformi: sebbene
sembri del tutto evidente in sé, sfugge ad una chiarificazione conclusiva, univoca,
sufficientemente chiara e assertiva (questo almeno in ambito clinico).
Vorrei allora provare a dichiarare in partenza il campo della mia argomentazione e i
confini del mio argomentare stesso: parlerò di autenticità all’interno della clinica del
trauma, di quel trauma che, come dice Bonomi (2004), rompe, tra le altre cose, la
capacità del soggetto di simbolizzare. L’evento traumatico, il contesto traumatogeno,
non danneggiano, infatti, unicamente il simbolo di per sé. La loro dinamica distruttiva
intacca la capacità stessa (intesa come funzione) di produrre simboli, di costruire
rappresentazioni sia di primo livello (tracce mnestiche sotto forma di percezioni) sia di
secondo livello.
Vorrei quindi parlare di quel trauma che aggredisce il processo e la funzione
rappresentazionale e referenziale e che ipoteca anche la possibilità di accedere a quei
livelli metarappresentazionali e metareferenziali [funzione autoriflessiva (Mitchell
1993), autoriflessività, (Aron 1996), mentalizzazione (Fonagy 2002)] i quali
permettono l'organizzazione in termini soggettuali, dei significati affettivizzati di me in
relazione a me stesso e all'altro affettivizzato esso stesso in relazione con me e con se
stesso.
È un trauma, questo, che fa collassare la realtà con la fantasia, il vero con il falso, il
mio con il suo, il me con l’altro, il dentro con il fuori, il passato con il presente, il male
con il bene, inibendo il futuro potenziale in un presente ricorrente inquinato da un
passato ingombrante.
È all’interno di questo spazio concettuale che vorrei parlare di autenticità, non tanto
come “fattore non interpretativo” quanto piuttosto come possibile “funzione” specifica
di ciascun atto terapeutico. Sono interessato a vedere come questa “proprietà
qualitativa”, attribuibile ad ogni azione clinica in seduta, possa influenzare
l’organizzazione dei significati personali del paziente, l’organizzazione della sua
soggettività, la costruzione o ricostruzione di una soggettualità più articolata,
flessibile, creativa e, per così, dire autentica.
Sofia, donna di 40 anni, in terapia da diversi anni a tre sedute alla settimana, vis a
vis, è nata, vissuta e cresciuta in un clima affettivo e in un contesto di relazioni
profondamente traumatiche.
Noncuranza, maltrattamenti, abusi, rovesciamento dei ruoli, confusione delle lingue e
dei linguaggi (Ferenczi 1932, 1933) che hanno implicato confusione delle intenzioni,
degli affetti, delle relazioni, delle azioni in una dimensione di disregolazione e
imprevedibilità assoluta (se non nell'assoluta prevedibilità dell'imprevedibilitá stessa),
in un’assenza di rispecchiamento e riconoscimento se non a fini narcisistici da parte
dell’oggetto di cure, sono stati il clima oltre che l’humus psicologico in cui la paziente
è nata e cresciuta nei primi anni della sua vita.
La soggettività di Sofia si è organizzata così su processi e azioni concrete di
sopravvivenza psichica che hanno imposto un adattamento dissociato alla realtà