[...] fatto che ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o
trasformato attraverso il mero ricorso a schemi concettuali [...].
Questo però non è solo un limite, è anche una risorsa.
L’inemendabilità ci segnala infatti l’esistenza di un mondo esterno, non
rispetto al nostro corpo (che è parte del mondo esterno), bensì
rispetto alla nostra mente, e più esattamente rispetto agli schemi
concettuali con cui cerchiamo di spiegare e interpretare il mondo. [...]
L’inemendabilità si manifesta essenzialmente come un fenomeno di
resistenza e di contrasto.
(Ferraris 2012)
Non voglio naturalmente entrare nel dibattito tra realismo e postmodernismo. Ciò che
mi interessa, e che naturalmente mi ha incuriosito, è questo concetto di
"inemendabilità”, di ciò che sta fuori di me, che io posso conoscere e che è
indipendente dalle mie strutture di conoscenza.
Nella condizione di Sofia, nella condizione di una soggettività costituita per reagire
adattativamente agli imprevedibili urti traumatici sotto forma di destrutturazione
costante dei confini esistenziali, ontologici, psicologici del ‘me’ e del ‘non-me’, la
“realtà incontrata” dell’altro, mediata dall’autenticità della sua agente presenza
psicologica, quale valore può assumere in una riorganizzazione della sua soggettualità
e in una riorganizzazione alternativa della sua stessa soggettività?
Il trauma rendendo porosi i confini (pensiamo alla regolazione affettiva), spesso li fa
saltare. Usando parole parafrasate da Sofia, potremmo descrivere questa esperienza
in questo modo: “Non so chi è e cosa vuole l’altro di fronte a me e non so nemmeno
chi sono io e che cosa voglio io da lui/lei o per lui/lei”. “Fatico a comprendere le sue
intenzioni e le mie con lui/lei, perché è qui con me e io sono qui con lui/lei? Perché sta
succedendo tutto ciò?”. “Perché il dolore fisico, psicologico che sento, dovrebbe
piacermi? Allora forse quello che provo non è dolore, forse è proprio piacere. Così mi
dicono, così io dubito, altrimenti mi confermerebbero che quello è proprio dolore.
Certamente non posso dubitare sul bene che mi vogliono quelli che sono qui con me, i
miei genitori. Loro inoltre si rendono conto che sono la loro figlia piccola di cui si
devono prendere cura. Si, mi fanno questo, ma mi vogliono bene, forse lo fanno
proprio perché mi vogliono bene. Forse non sto capendo ciò che stanno facendo.
Certamente è così, non possono volermi male. Al limite sono io che ho sbagliato in
qualcosa, sono io la cattiva, faccio male, non capisco quanto mi vogliono bene”.
Nel trauma piacere e dolore si mischiano, si indifferenziano, si decostruiscono
vicendevolmente, si assimilano pericolosamente. I confini e il valore psicologico della
differenza saltano. Si costituisce una mente non mentalizzata, una 'teoria di una
mente reattiva, confusa, colpevole, piena di vergogna, disperata e disperante,
paralizzata'.
Credo che il valore terapeutico dell’autenticità risieda proprio qui. La qualità autentica
della presenza dell’altro, la qualità irriducibile del suo esserci mentalizzato e
mentalizzante, la presenza appercepita di una mente (e di uno spazio psicologico
dentro, intorno e tra una persona e l'altra) capace di porre una resistenza ontologica
alla confusione e al deragliamento affettivo del trauma, apre la strada alla percezione
dell’alterità dell’altro che diventa appercezione, ‘per differenza’, di me e di me stesso.
L’autenticità diviene espressione dell’inemendabilità dello stato psicologico
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