senza nome che avrebbero richiesto del tempo per raggiungere una formulazione
conscia.
Unendomi a lei dissi : “Ricordo bene queste sensazioni”.
Educata, ma disinteressata, lei andò avanti a discutere le sue sensazioni di
spiazzamento e alienazione. La curiosità di Nell per la mia esperienza del Sud Africa
sembrava minima, se non inesistente, anche se percepivo un tacito riconoscimento nei
suoi racconti, del fatto che io sapessi di cosa stesse parlando.
Oltre al suo bisogno psicologico di tenermi a bada, mi rendo ora conto della subdola
piega presa dalla mia certezza accecante. Non mi era allora venuto in mente che il suo
sistema di credenza di
me come “l’altro”
precludesse in quel momento una
condivisione affettiva della sua esperienza.
Anche se aveva scelto di lavorare con me per il mio retroscena sud africano, questa
scelta era stata affermata sulla convinzione che persino un nemico interno era meglio
di un estraneo ignorante.
Divenne presto evidente che se da un lato Nell era Afrikaans di nascita, le sue idee
politiche non erano quelle generalmente collegate con la sensibilità Afrikaans.
Al contrario aveva sostenuto un coinvolgimento politico molto attivo e rischioso contro
la segregazione durante i periodi più pericolosi, non solo come partecipante volontaria
e apparentemente impavida, ma come una rispettata leader studentesca che operava
all’interno di tutte le organizzazioni che ammiravo di più.
Un altro stereotipo mangiò la polvere per me. E nel suo dissolversi divenni sempre più
consapevole di certi miei sentimenti personali più complessi.
Sentii un profondo senso di vergogna per non aver fatto e combattuto le battaglie
nelle quali credevo tanto, ma nelle quali avevo avuto paura di coinvolgermi a livelli più
profondi di quanto non avessi fatto.
Ricordo come al momento dell’emigrazione avessi dovuto affrontare la scelta per cui
restare richiedeva da parte mia un impegno più attivo e di rischiare il destino di molti
miei amici, l’isolamento solitario, gli arresti domiciliari o peggio. Rimanere senza un
impegno attivo voleva dire colludere con tutto quello che detestavo.
L’emigrazione sembrò la mia unica scelta. Ora in questo momento con Nell, questa
scelta sembrava vergognosa.
Il dubbio si insinuò dolorosamente in me.
Stando lì seduta con il coraggio di Nell, con le sue incrollabili convinzioni, il suo
costante
senso di avere uno scopo, ero ora per la prima volta nettamente
messa a
confronto con il mio sé amputato. Quella parte del mio sé lasciato indietro, segregato
e congelato in un luogo e uno spazio che non poteva viaggiare con me mentre lottavo
per conquistare un nuova sensazione di sentirmi a mio agio nel mio paese di adozione.
Come sappiamo il paese di nascita continua a risiedere profondamente in noi molto
dopo che ce ne siamo andati. Creare ponti fra le esperienze di là e qua, di allora e ora,
è scoraggiante e spesso impossibile.
Se da una parte un certo senso di sé può prevalere e molti aspetti del sé vanno avanti
insieme per affrontare il nuovo, puntualizzando e arricchendo queste possibilità,
qualcosa di vitale viene lasciato indietro, perduto, incapsulato nel mondo complesso e
multi stratificato della terra in cui si è nati.
Diventare più consapevole di questa mia dimensione (una dimensione dalla quale ero
scappata e per la quale non avevo avuto il tempo di elaborare il lutto) divenne
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