manifestano in enactments, impasse, pregiudizi, giochi di potere di “complementarietà
inversa” (Benjamin, 1995) e i nostri “punti ciechi” – l’equivalenza semplice ma
potente di Levenson (1992) di ciò in cui consiste veramente il controtransfert.
Ridefiniamo ora la competenza e la disciplina analitica come l’abilità di far buon uso di
quegli inevitabili momenti in cui ci troviamo messi alla prova, invece che, alle prime
avvisaglie di memorie traumatiche, ritirarci ansiosamente in luoghi di “certezza” e
convinzione, luoghi in cui lo spazio dialogico crolla, in cui la dialettica è resa muta, in
cui ci pieghiamo verso una posizione che eclissa e preclude tutte le altre.
Nella nostra storia analitica, individuale e collettiva, Benjamin (2009) descrive questo
fenomeno proponendo di intrattenere il dubbio in momenti di tensione personale,
come ciò che permetterebbe il rientro di frammenti scissi, solitamente aderenti con la
dissociazione, come innominabili e “non-io”.
Benjamin dice: “Noi ora possiamo avere una più ampia prospettiva su come è stato
improntato lo sviluppo della psicoanalisi nel dopoguerra a seguito dell’essere sfuggiti
al genocidio nazista ed al fallimento del riconoscimento dell’inevitabile risposta al
trauma dell’analista, incluso il senso di colpa per essere sopravvissuti quando altri
erano morti … La regola del movimento psicoanalitico legata al “contenitore totale”
mistificava e riempiva di vergogna l’analista, ma difendeva dal conoscere i potenti
stati affettivi soggettivi dell’analista e dalle altrettanto potenti fughe nella
dissociazione … Dal mio punto di vista, il fallimento nel processo comune
dell’elaborazione delle esperienze soggettive degli analisti è risultato nella incapacità
di riconoscere e restituire al paziente una immagine dei propri conflitti interni e della
lotta per il cambiamento. Un vero e proprio fallimento del riconoscimento”.
(Benjamin, 2009)
Un tempo la certezza era stimata come il segno di un’interpretazione corretta, in linea
con l’indiscussa autorità storica dell’analista.
Ora sappiamo che essa è antitetica a tutto ciò a cui aspiriamo come analisti, dato che
la sua presenza tende a devitalizzare, ad impedire la possibilità, a sopprime la
curiosità ed a maschera gli sforzi affettivi importanti.
Tuttavia, tutti desideriamo un qualche tipo di certezza. Ovvero quel senso di solidità
dato dalla sensazione di poter contare sugli aspetti prevedibili di tutti i giorni, dalla
sensazione di sapere cosa possiamo aspettarci, dal come poter dare un senso alle
cose e persino afferrare l’inspiegabile.
E c’è del valore in questo.
La certezza offre un respiro di sollievo, un luogo dove atterrare.
Ognuno di noi desidera ardentemente questa sensazione, sebbene noi siamo
consapevoli della sua transitorietà e dei suoi aspetti illusori.
Vediamo come il trauma mandi in frantumi con facilità questo senso di conoscenza e
la comodità del prevedibile (Storolow, 2005).
Tuttavia, ci troviamo di volta in volta, alla ricerca di rifondare questo senso della
conoscenza, in modo particolare in quei momenti in cui fronteggiare la complessità e
il dubbio ci gioverebbe, ma che, allo stesso tempo, attraverso un confronto doloroso ci
minaccia con ciò da cui abbiamo disperatamente bisogno di ritirarci.
Ferro (2006) nel dibattito contro la verità analitica che preclude una co-costruzione a
ruota libera e continua della narrazione e del significato, riporta il famoso aneddoto di
un bimbo proveniente da una famiglia povera, mandato a scuola dai genitori a costo di