Mi trovai sempre più ad avere verso di lei un atteggiamento caldo, a sentirmi familiare
e a mio agio nei suoi confronti con una modalità che andava ben oltre la nostra breve
conoscenza.
Tuttavia provavo una frustrazione sempre maggiore riguardo al fatto di non poter
stabilire alcun vero scambio con il suo mondo interno.
I suoi racconti che riguardavano sia il passato sia il presente mi venivano portati con
uno stile che ricordava quello di una cronista che a dispetto degli eventi intensi che
narrava rimaneva per lo più priva di passione, ovvero come un’osservatrice della
propria esperienza, pragmatica e razionale.
Facevo spesso commenti su queste mie sensazioni. Le dicevo che rispetto alla storia
molto complessa e difficile che raccontava vedevo una certa assenza riguardo al tipo
di emozione che mi sarei aspettata che lei provasse.
“Veramente?” era la sua risposta usuale e proseguiva la storia che mi stava
raccontando.
Nonostante tutto a volte mi avventuravo più in là ed in modo particolare in tutte le
occasioni in cui le mie emozioni filtravano nelle risposte che davo a qualche suo
racconto.
“Quanto deve essere stato terribile per lei tutto questo”. Oppure “Quanto si deve
essere spaventata quando l’ha presa la polizia”. Oppure “Accidenti quanto è stata
coraggiosa!”.
Questi miei tentativi di espressione empatica venivano salutati da un sorriso
enigmatico mentre Nell continuava a parlare con lo stesso tono di voce di prima, quasi
monotono e dissociato.
Chiaramente la sua storia traumatica era molto più profonda e molto più pervasiva di
quanto mi rendessi conto che fosse e cominciai a comprendere che questi miei
commenti erano davvero privi di senso per lei. Parlavano alla mia esperienza non alla
sua. Avrei potuto e dovuto ascoltare semplicemente ciò che mi diceva senza cercare di
dare un nome agli affetti sottostanti, almeno non ora. Invece mi concentravo e mi
immergevo ancora di più nelle sue narrazioni cercando, attraverso le mie domande, di
ampliare il suo livello di curiosità riguardo alle proprie esperienze, alle proprie scelte e
al proprio stato mentale.
Dopo un prolungato periodo, Nell raccontò un sogno:
“Mi stavo occupando di due bambini più piccoli. Io avevo otto o nove anni. Erano
bambini di amici di famiglia. Dovevo tornare a casa e per qualche ragione i bambini
erano rimasti indietro. Mi sono sentita molto angosciata nel corso di questo sogno.
Dissi immediatamente a mia madre ‘DEVI chiamare la loro madre’. C’è un senso molto
potente in questo sogno di mia madre che dice ‘NO, non possiamo. È troppo terribile’.
Alla fine fa la telefonata ma lei è del tutto inefficace. Si scusa troppo e non ha una
strategia per trovare una via di uscita. Mi sento ansiosa rispetto alla chiamata e sono
furiosa con lei. La forte sensazione che avevo era che lei non stesse facendo nulla per
aiutare a risolvere la situazione. Mi sentivo spaventata per la loro rabbia. C’è un
momento netto
quando fa la telefonata. Lei dovrebbe risolvere la cosa. Dovrebbe dir
loro che i bambini stanno bene, sono solo rimasti indietro. Lei non lo fa. Non mette le
cose a posto.”
Spontaneamente Nell parlò di questo sogno come emblematico della sua relazione con
la madre. Una madre che non metteva mai le cose a posto, che le imponeva delle