L’idealizzazione di sé indotta
C’è un momento in cui la complessità della vita emotiva di questi pazienti, ha subito
un profondo cambiamento in direzione di un adattamento forzato alle attese rigide
delle figure affettive di riferimento Brandchaft (1993). Tutto ciò che non era consono
alle aspettative di quest’ultime e poteva minacciare il legame è rimasto inespresso,
ed essi sono rimasti vincolati alla definizione di sé che hanno ricevuto. L’assimilazione
della prospettiva dell’altro può essere vista come un processo attraverso il quale “…
l’esperienza del bambino viene sostituita da una porzione della realtà psichica
invalidante. Questa sostituzione o occupazione può mettere in rilievo gli aspetti
positivi dell’oggetto, ma resta comunque un’usurpazione della soggettività del
bambino, il quale sente la necessità di affermare e incorporare queste qualità per
preservare l’indispensabile legame con l’oggetto”
(Storolow, Atwood 1992 pg 69). La
prospettiva dell’altro assunta su di sé viene a costituire “
l’ideale difensivo del Sé”
Storolow (2012), che darà luogo ad aspettative rigide su se stessi e l’altro, e il cui
funzionamento sarà automatico perché pre-riflessivo. Il soggetto si trova ”
..intrappolato in una prospettiva non riflessiva, che non riconosce come una
prospettiva, ma che accetta come realtà che non- deve- essere- messa- in-
discussione. Egli è costretto a essere inconsapevole dell’esistenza di un centro del Sé,
eccetto quello compreso nella prospettiva che lo avviluppa”
(Brandchaft,
ibidem
pg.121).
Per evitare il dolore e la vergogna per affetti considerati eccessivi e invalidati nella
famiglia, nei pazienti si costituisce un nucleo del Sé basato su risposte positive a
qualcosa che viene valorizzato, come bontà, generosità, intelligenza, potenza,
bellezza, per differenziarsi da ciò che viene svalutato, perché considerato folle,
eccessivo, non umano, difettoso, non armonico, fragile, antiestetico. Donnel Stern
(2005) parla dell’ ”
esperienza non formulata
” come di un “
caos familiare”
,
un’espressione che denota un crogiolo di emozioni originarie, rimaste come tracce
implicite, non presenti coscientemente nell’esperienza del paziente, ma con le quali
egli ha, allo stesso tempo, un rapporto di intimità e familiarità. Si tratta di evitare
affetti che i genitori stessi hanno evitato; la demarcazione dal mondo “fuori” da
questo nucleo idealizzato, deve essere continuamente mantenuta a prezzo di sforzi
notevoli.
Antonietta, mentre svolge il suo lavoro di assistente sociale, si trova spesso a
criticare il comportamento di qualche collega, che secondo lei ci mette meno impegno;
lei stessa, nonostante tutti i suoi sforzi per essere in linea con quello che pensa
dovrebbe essere un comportamento ineccepibile, trema all’idea di commettere degli
errori, di fare passi falsi, di sbagliare a parlare nelle riunioni e di dimenticarsi le cose.
A volte, esprime la sensazione di essersi spinta troppo oltre rispetto alle sue reali
forze, e che questo possa essere reso evidente da un eventuale cedimento davanti
agli altri. I dubbi sulla sua realtà soggettiva, rendono le scelte affettive e professionali
laboriose e causa di stanchezza e tormento. Un sogno, portato nella prima fase della
terapia, in cui compaiono immagini di morte, associate a personaggi vissuti al
tramonto di un’epoca d’oro (grandiosa) della cultura europea, mette in evidenza il
timore del crollo. La presenza in lei di emozioni caotiche, viene messa in relazione con
alcuni comportamenti delle donne della sua famiglia. Sono immagini da cui si sente
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