La vera dinamica sotterranea in cui è coinvolto nel rapporto, riguarda il confronto fra
chi dei due sia più forte, o meglio, chi sia il più bisognoso. Ciò che sembra acclarato, e
che lui alimenta in tutti i modi, a volte con sforzi notevoli, si ribalta improvvisamente
ogni volta che lei si allontana, distacchi a cui reagisce come se si sentisse annientato.
Nel corso del nostro lavoro abbiamo cominciato a vedere in questa reazione una sua
dipendenza celata dietro l’apparente sicurezza che mostra solitamente; è emerso che
controlla l’angoscia di poter essere lasciato, e questo, non gli consente di riflettere
sulla natura del legame con maggiore libertà.
L’angoscia e l’indecidibilità di fronte ad alternative impraticabili
Come abbiamo visto, nei pazienti di cui abbiamo parlato, la richiesta di validazione,
comporta una tensione costante, per i continui sforzi di adeguamento alla definizione
rigida di sé. Solitamente riescono a utilizzare le conferme dell’ambiente, in modo da
ottenere il rifornimento di cui hanno bisogno, per la loro stabilità, continuità e vitalità.
Abbiamo comunque visto come questo non sana i dubbi su sé stessi, e quanto il
bisogno continuo di conferma li esponga a un rapporto di dipendenza con le fonti che
la erogano, motivo per il quale, si sentono in colpa per questo “uso” degli altri, e si
disprezzino per non essere autosufficienti. Spesso la tensione è tale da desiderare un
evento esterno che faccia cambiare questo stato di cose; in altri casi è viva l’attesa
che esista nel futuro un “porto sicuro” dove rifugiarsi. Rimane comunque la sensazione
di “
una coesione presa a prestito
” (Kohut 1984), a cui si accompagna un senso di
inautenticità, e un grande rimpianto per non essere in linea con ciò che si sà essere
più proprio.
Ci sono circostanze della vita, o fasi del lavoro terapeutico, in cui la tensione può
raggiungere punti prossimi alla rottura, perchè il paziente si trova a vivere
l’impossibilità di scegliere tra alternative che per motivi diversi risultano entrambe
impraticabili: non riuscire più a procedere nello sforzo fatto per aderire all’ideale
purificato che lo difende da ogni affetto minaccioso, ma allo stesso tempo, al dover
fronteggiare la perdita del senso strutturante il Sé, qualora rinuncia a questa modalità
di definirsi. Il cambiamento è temuto perché, abbandonare la struttura di cui abbiamo
parlato, significherebbe per i pazienti entrare in contatto con aree della mente non
articolate e per questo altamente destabilizzanti.
“Nelle prime fasi dello sviluppo di questi pazienti, che sono spesso soggetti a cadere in
stati frammentati, disorganizzati o psicosomatici, vaste aree della loro esperienza non
sono riuscite a suscitare una sintonizzazione convalidante da parte dell’ambiente, e di
conseguenza le loro percezioni rimangono scarsamente definite, precarie e facilmente
esautorate dai giudizi degli altri, e i loro affetti tendono a essere vissuti come stati
fisici diffusi piuttosto che come sentimenti elaborati simbolicamente”
(Storolow,
Atwood 1992 pg 45).
Quanto detto dagli autori citati, ci fa cogliere la difficoltà dei pazienti di avvicinarsi ad
aree della mente prive di qualsiasi definizione, una specie di non-Sé, tale perché
rimasto “
non articolato
, non “
convalidato
” e “
non formulato”
(Storolow, Atwood, 1992
Donnel Stern, 2005 Bromberg, 2012), un luogo senza ritorno, il “
vuoto dissociativo
”
(Bromberg, 2011).