Una manifestazione di angoscia può esprimere sia il timore del crollo della struttura di
automantenimento a causa di mancata conferma, o riguardare invece l’affacciarsi di
qualche cambiamento nella struttura automatica, ed è importante in analisi
distinguere da quale dei due ambiti si origina l’angoscia. Giovanni, ad esempio, che si
è sempre fatto vivere come disponibile, aspettando segretamente il suo turno con le
donne, che non è mai arrivato, sogna di stare in alto, su un terrazzino che sta per
crollare, esprimendo in questa fase della terapia, il timore di non reggere lo sforzo
richiesto dal mantenimento del suo nucleo idealizzato. In un periodo successivo, dopo
l’elaborazione delle rabbie e delle delusioni per gli abbandoni ricevuti, quando si
avvicina all’idea di poter manifestare direttamente le sue esigenze nelle relazioni
affettive, uscendo dal meccanismo camuffato del turno, sogna di essere in una stanza
accogliente dove vede un balcone aperto, si spaventa e cade a terra per la paura. In
questo sogno, l’ansia è dovuta al cambiamento, all’affacciarsi all’orizzonte di una
prospettiva meno ristretta, e quindi al timore di perdere i punti di riferimento
costrittivi ma strutturanti, come gli era capitato durante un attacco di panico
nell’adolescenza.
La partecipazione dell’analista
Come si rapporta l’analista alla struttura rigida del paziente? Se da una parte, deve
riconoscere la necessità di validazione, dall’ altra si deve porre il problema di quanto
questo modo di procedere possa alimentare la struttura
di autoidealizzazione indotta
,
con il risultato di mantenere il paziente in uno stato di continua dipendenza per
evitare frammentazioni. L’approccio “
non consiste nel rispecchiarla e neppure nello
smontarla, ma nell’attendere aperture all’interno di essa…”
(Orange, Atwood, Storolow
1997 pg 91). Un ascolto su tutti i piani implicati da questa struttura, può aiutare il
paziente a sentire di non doversi forzare ad adattarsi all’uno, o all’altro di essi. Per
l’analista si tratta di riuscire a empatizzare l’indecidibilità che comporta la scelta tra la
rinuncia a questa definizione di sè o il suo mantenimento, una sospensione che può
rappresentare un primo momentaneo ponte sul vuoto, uno spazio di “
ambiguità
” per
l’evoluzione del Sé (Mitchell, 1993) . Si tratta di comprendere la funzione evolutiva e
strutturante che l’autoidealizzazione ha svolto per il paziente. In qualche modo,
spesso è stata una spinta che ha consentito di raggiungere traguardi apprezzabili; allo
stesso tempo, per il paziente, capire quanto la rigidità di una certa definizione è nata
nell’ambito dei rapporti con le figure di riferimento, per escludere affetti che la
minacciavano, lo rende più consapevole dell’assenza della libertà di scelta. La colpa, e
il disprezzo per la dipendenza dagli altri, possono essere alleviate, se la dipendenza
viene risignificata alla luce della
necessità
di essere visti per esistere.
A un certo punto i pazienti si rendono conto che le energie da mettere per continuare
ad autosostenersi, rendono di più se investite nel lavoro sulle ansie dovute ai dubbi
su se stessi. Possiamo immaginare che la costante sensazione di essere sull’orlo del
precipizio, l’idea che lo stato del proprio Sé possa diventare palese agli altri, lo sforzo
continuo fatto per adeguarsi alla struttura meccanica, il senso di artificialità e il
rimpianto per non essere più vicini a se stessi, siano tutti fattori che concorrono a
spostare le risorse in direzione del cambiamento.
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