un gattino che girava per casa: nel momento in cui la madre si accorse del legame
che Marta stava instaurando con lui, glielo prese dalle mani dicendole che lo avrebbe
fatto sparire: e così fece. Marta mi disse che lo sgomento provato la rese muta e
incapace di muoversi. A questo si affiancavano quotidiane mortificazioni e una radicale
incuria verso ogni sua espressione di femminilità. Marta non poté contare né sul
sostegno del padre, che si rivelò un uomo alquanto debole, né su quello del fratello,
poiché in quanto maschio godeva di ben altra considerazione da parte della madre.
Tra le difficoltà che sentiva presenti nella sua vita, Marta si riteneva incapace di
stabilire un contatto emotivo con altre persone. Descriveva un contatto emotivo
intimo come un’esperienza totalmente assente nella propria storia, aggiungendo che
la sola idea che potesse verificarsi una maggiore vicinanza con un’altra persona la
esponeva ad uno stato di intenso disagio, oltretutto esacerbato dalla convinzione di
non potersi poi più sottrarre alle inevitabili richieste dell’altro.
Le esperienze professionali e sentimentali tendevano a conformarsi con questo
scenario interiore. Nel contesto professionale, pur essendo lei dotata di notevoli
competenze cognitive, riflessive, organizzative, questa sua estrema vulnerabilità allo
sguardo dell’altro la esponeva di frequente ad esperienze di sfruttamento da parte del
parassita di turno. Nel contesto extra–lavorativo, le scelte relazionali di Marta si
differenziavano invece a seconda del genere: mentre l’organizzazione personale dei
soggetti maschili presentava sovente tratti di freddezza, distacco e isolamento, quella
dei soggetti femminili contemplava anche mescolanze affettive più calde, attente e
valorizzanti.
Un altro tratto dei lineamenti di Marta è bene espresso da un’immagine tratta da un
suo racconto risalente ad alcuni anni fa. Stava tornando a casa in treno dopo il lavoro:
dal finestrino poteva vedere l’interno delle case costruite lungo la ferrovia. Ad un certo
punto, tutti i rumori intorno a lei si dissolvevano e Marta si ritrovava intenta ad
immaginare la vita delle persone che abitavano quelle case. Questo racconto dice
molto sia della sensibilità di Marta che della sua capacità immaginativa.
In parallelo con l’esperienza terapeutica, Marta intraprese diverse iniziative. Ad un
certo punto però ne iniziò una che mi parve introdurre un elemento di novità. Mi
raccontò di aver cominciato a frequentare l’atelier di una pittrice, presumo anche arte
terapeuta, dando seguito ad una precedente esperienza positiva nel campo della
scultura. Ne fui colpito perché con questa iniziativa Marta si addentrava in un campo
di competenza specifico della madre: la pittura. Intraprendere un percorso di pittura
poteva dunque segnalare l’innesco di un desiderio mimetico? O invece segnalava che
la figura materna stava diventando meno paurosa agli occhi di Marta?
Sovente nel dialogo con Marta mi ero trovato a sentire il suo dolore rispetto
all’impossibilità di stabilire un contatto emotivo positivo con la madre, dolore che a
volte la esponeva a pericolosi viraggi autocritici. Praticare la pittura era forse
l’ennesimo tentativo di Marta di dar vita ad un “noi” che sebbene fittizio era sempre
meglio di un “io” votato all’autodistruzione? Oppure Marta stava cercando di stabilire
una connessione con la dimensione creativa della madre al fine di sciogliere la propria
identificazione con quella più fredda e distruttiva?
Lasciai la porta aperta a tutte le ipotesi sollecitate da questa nuovo percorso artistico
da lei intrapreso.