stessi dialoghi potevano dunque essere visti come facili bersagli di una procedura
“terribilmente efficace” nel proteggere i legami?
Ma ecco l’immagine con cui Marta riuscì a descrivere il pattern che si attivava in
seduta: nel momento in cui una faglia terrestre fa per sollevarsi, immediatamente si
innesca un potente movimento in un’altra faglia che sopravanza e schiaccia la prima.
Con questa rappresentazione Marta rendeva visibile una procedura finalizzata a
silenziare tutte le cose che osavano sfidare il divieto di esistere. Se mettiamo a
confronto l’immagine del palloncino con il filo e la rappresentazione delle due faglie,
avvertiamo la straziante fatica che quel palloncino deve fare per resistere ad urti di
tale intensità.
Forse allora l’invito a non abbandonare la ricerca cromatica si poneva come una
sollecitazione a resistere all’automatismo che rischiava di attivarsi ogni qualvolta
Marta si dedicava alle cose che avevano bisogno di tempo per poter diventare
“qualcosa di più di una cosa qualsiasi”. Certo, anche il volto appena percettibile sulla
tela avrebbe potuto diventare qualcosa, ma era importante che non rubasse subito la
scena al “mormorio dei colori” (Merleau-Ponty. 1964, P. 33) a cui Marta stava offrendo
una possibilità di esistenza.
La tela di Marta si presta così a divenire metafora dello spazio estetico. Accogliendo
entrambi i flussi intenzionali – quello relativo alla ricerca cromatica e quello relativo al
delinearsi del volto – la tela di Marta rende infatti riconoscibile l’antagonismo tra le
due “faglie”, permettendo così al pensiero di soffermarsi sul motivo per cui una delle
due tendeva abitualmente ad annullare l’altra. Credo che l’insegnante, convalidando lo
“stato d’arresto” dei due flussi intenzionali posto in essere da Marta, le abbia
implicitamente suggerito che lasciare in sospeso quel volto non corrispondeva ad
annullarlo, bensì significava lasciare che fosse la ricerca cromatica a permetterle di
trovare i colori più adatti per quel volto in cerca di un’identità. Una ricerca che
convoca nuovamente sulla scena Cézanne, il Cézanne di cui tanto ha parlato Merleau-
Ponty. Commentando l’opera di Cézanne, il filosofo afferma: «Il disegno deve risultare
dal colore, se si vuole che il mondo sia reso nella sua densità, poiché esso è una
massa senza lacune, un organismo di colori, attraverso i quali la fuga della
prospettiva, i contorni, le rette e le curve si dispongono come linee di forza, e la
dimensione spaziale si costituisce vibrando» (Merleau-Ponty. 1962, P. 33). Tutto
questo ci permette di apprezzare ancor di più la sintesi di Cézanne: «Il disegno e il
colore non sono più distinti; […] più il colore s’armonizza, più il disegno si precisa […].
Quando il colore raggiunge la sua ricchezza, la forma è alla sua pienezza» (Cézanne,
cit. in Merleau-Ponty. 1962, PP.33-34). In questo modo Cézanne è riuscito ad
“esprimere il mondo” vivendolo come un “tutto indivisibile”, tanto che ogni pennellata
«conteneva l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno e lo stile» (Bernard
cit. in Merleau-Ponty. 1962, P. 34).
Avvertiamo qui la potenza integrativa dello spazio estetico, uno spazio pluralista
capace di accogliere e far reagire gli elementi antagonistici e conflittuali che animano
le nostre vite. E quando questo spazio si attualizza nell’esperienza terapeutica, «il
pathos
che è proprio dell’arte si confronta con il pathos del pensiero» (Rella. 2010, P.
97-98).
Parole che suonano come un richiamo e nello stesso tempo un incoraggiamento per
tutti coloro a cui la vita chiede di essere audaci come poeti. Terapeuti compresi.