questa socialità non tarderà però a rivelarsi priva di qualsiasi autentica espressione di
reciprocità, cooperazione e solidarietà
Reciprocità, cooperazione e solidarietà
richiedono infatti un investimento affettivo e cognitivo che la “pluralizzazione” rende
del tutto superfluo grazie alla diffusione di copioni relazionali impermeabili alla
dialettica tra interdipendenza e autonomia individuale.
Buber analizza le differenze tra la prospettiva pluralista e quella pluralizzante
distinguendo tra il concetto di comunità e quello di collettività. Relativamente al
concetto di comunità, il filosofo sostiene che la comunità non consiste nell’essere
semplicemente l’uno più vicino all’altro, ma «nell’essere uno presso l’altro di una
molteplicità di persone che, anche se si muove insieme verso un fine comune,
ovunque fa esperienza di una reciprocità, di un dinamico essere di fronte, di un flusso
dall’io al tu» (Buber. 1930, P. 218). Analizzando poi il concetto di collettività, Buber
evidenzia che «lo stare insieme collettivo è pensato per contenere e limitare
l’inclinazione al rapporto personale. È come se coloro che sono riuniti nel gruppo
dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all’opera del gruppo, e solo
secondariamente potessero rivolgersi ai compagni in un rapporto di tipo personale,
tollerato dal gruppo» (Buber. 1954, P. 296). Attraverso questa distinzione, Buber
giunge a definire la comunità il luogo dell’
interumano
– il «reciproco stare-l’uno-di-
fronte-all’altro» (Ibid. P. 298) – a condizione però che l’interumano sia autentico
perché qualora manchi tale autenticità «neanche l’umano può essere autentico» (Ibid.
P. 301). Da un lato queste riflessioni di Buber delineano al meglio la distinzione tra la
prospettiva pluralistica e quella pluralizzante, e dall’altro consentono di riconoscere
nell’interumano e nella comunità gli spazi appropriati per il germinare di un’esperienza
di “intima estraneità” (Putino. 2006, P. 170).
Riconoscendo la realtà del conflitto e dell’antagonismo tra particolarità e molteplicità,
identità e alterità, “io” e “tu”, la prospettiva pluralista risulta quindi particolarmente
idonea nel contrastare una cultura analgesica nei confronti della vita. La prospettiva
pluralista espone infatti a tensioni generate da esperienze di crisi, di spaesamento, o
persino di choc che possono determinarsi quando la conoscenza precedentemente
costruita relativa all’ “io”, al “tu” e al “noi”, deve confrontarsi con dimensioni
dell’alterità del tutto inattese. Infatti, l’esperienza dell’alterità a volte può interrogare,
in modo «miracolosamente selvaggio» (Buber. 1936, P. 257), precedenti convinzioni
personali, creando dei varchi tanto allo stupore quanto all’orrore. Queste esperienze di
crisi talvolta costituiscono nuove chance per la vita, chance a cui Buber invita a non
sottrarsi: «l’ora conta tutta intera nella sua atrocità, tutta intera ti reclama, e tu devi
rispondere» (Ibid. P. 257).
i
Relativamente al concetto di “socialità illimitata”, il sociologo Bauman, nel capitolo intitolato
«Communitas» in vendita
(Bauman. 2003, PP. 81-106) analizza la pressante ricerca di uno stato di
perenne connessione descrivendo le connessioni come «solide rocce circondate da sabbie mobili. […]
Ogni
connessione può anche durare poco, ma la loro
sovrabbondanza
è indistruttibile» (Ibid. PP. 83-84).
Questa rete pressoché illimitata di connessioni incrementa una particolare forma di prossimità, definita
dall’autore
prossimità virtuale
, che conduce alla «separazione tra comunicazione e relazione» (Ibid. P.
87). A livello emotivo, limitarsi alla pura connessione è indubbiamente meno impegnativo «ma anche
considerevolmente meno produttivo in termini di costruzione e preservazione dei legami» (Ibid. P. 87). La
prossimità virtuale si presenta, quindi, come una forma di prossimità che tende a generare «una massa
di individui isolati: uno
sciame
, per essere più precisi. Un aggregato mobile in cui ogni singola unità fa la
stessa cosa ma nulla viene fatto in comune» (Ibid. P. 84).