ambienti assai meno chiusi in cui riconoscersi. Al funerale di un vecchio amico di
famiglia, di origine tedesca come mia madre e di fede Luterana, il Pastore aveva
citato una poesia dal titolo “Le braccia aperte”, dedicata dal poeta alla figlia per
indicare nel gesto l’intento di lasciarla libera di andare, non di stringerla a sé.
Accanto all’altare una grande foto ritraeva un bambino imbronciato sulle cui spalle
un vecchio contadino aveva posato le mani rugose; il Pastore aveva commentato
poesia e foto come la rappresentazione del nostro affrontare con cruccio e paura la
vita, senza sapere dell’amorevole protezione che ci viene offerta nel nostro percorso.
Brigitta nell’andare via mi disse solo, brevemente, che aveva sentito parlare di quella
Chiesa.
Dopo qualche tempo apparve decisamente sollevata: aveva finalmente scoperto cosa
voleva fare, desiderava imparare a lavorare con i bambini. Poco dopo s’iscrisse ad un
corso di formazione e iniziò un tirocinio in una scuola materna. Continuava però a
sentirsi un’estranea all’ambiente delle maestre, ne criticava di continuo
l’atteggiamento frivolo e lo scarso impegno. Un giorno si sorprese nello scoprire
quanto i bambini apprezzassero la lettura che faceva loro di storie illustrate con vivaci
disegni a colori. Portò loro altri libri e cominciò a sentirsi sempre più integrata in quel
lavoro e riconobbe infine che la frivolezza delle maestre era dovuta solo al bisogno di
alleviare la tensione del lavoro con tanti bambini. Superata la condizione depressiva,
si allontanò definitivamente dalla comunità e riuscì ad organizzare serate di preghiera
con persone diverse i cui sentimenti religiosi erano affini ai suoi.
La scoperta della sua capacità di giocare con i bambini, di suscitarne lo stupore e la
gioia, come a lei da bambina non era mai successo, avevano offero a Brigitta
l’occasione per sperimentare la creatività di uno spazio transizionale tra realtà e
immaginazione (Winnicott, 1958) dal quale sgorga un’ autentica preghiera personale
(Loewald 1978, Jones 1991). L’ ”aprire le braccia” al mondo le aveva permesso di
staccarsi dal gruppo confessionale, di riavvicinarsi alle sorelle e vedere anche i loro
problemi, per cercare infine nuovi modi di praticare la fede.
MIRIAM
:
SCOPRIRE DIO NEI SOGNI
Miriam è stata in analisi con me per nove anni: quando la conobbi aveva poco più di
trent’anni, una donna esile e graziosa, che nel tratto delicato e un po’ timido serbava
la freschezza di un’adolescente. Il suo matrimonio, iniziato quando aveva venti anni
non era stato felice: si era sentita sempre assai dipendente dal marito, fin dall’inizio
oppressa da lui e spesso preda di un confuso senso di ribellione, ma, fino al momento
di intraprendere la terapia, non era stata capace di separarsi. Non si era mai sentita a
suo agio nella comunità ebraica di Roma, dove, dopo i suoi studi in Israele, si era
trasferita per sposarsi e raggiungere la famiglia che da alcuni anni si era stabilita in
Italia. L’arrivo in Italia aveva significato per la sua famiglia una notevole perdita di
status rispetto a quello posseduto nella città mediorientale di origine, e questa
sensazione di inferiorità aveva caratterizzato tutta la sua esperienza matrimoniale.
Miriam si sentiva ebrea in modi radicalmente diversi da quelli comuni al suo
ambiente, e marcava quella diversità con comportamenti apertamente trasgressivi, a
volte bizzarri, in totale contrasto con le regole condivise. Queste azioni che sul
momento le davano un senso esaltato di libertà, la facevano poi sentire “abietta”,
quasi si giudicasse secondo codici che lei stessa diceva di non condividere. In uno dei