degli altri; io replicai con veemenza che non sapevo proprio cosa fosse un buon
Cristiano, ma apprezzavo tanto la sua lotta quotidiana contro il degrado e la capacità
di provvedere ancora a se stessa. “Sa, credo di preferire la depressione all’estasi,
perché dopo so che mi toccherà una depressione ancora più grande. E’ meglio che il
mio rapporto con Dio sia finito. L’unica cosa che mi resta è venire qui in parrocchia
come fossi una barbona, aprire la mano per ricevere ciò di cui ho bisogno, e
andarmene quando l’ho ottenuto …” Le risposi allora con grande convinzione che in
cambio di ciò che definiva il suo mendicare, sapeva offrire una gratitudine
commovente, che sull’altro e su di me in particolare, aveva un effetto benefico
profondo. Poi le chiesi se quello che veramente chiedeva non fosse la tenera
considerazione che non aveva mai ricevuto: “Sì”, rispose e dopo un po’ aggiunse:
”Padre M. è proprio come un buon genitore, mi chiede di accompagnarlo quando deve
fare delle commissioni e mi chiede persino di farle al posto suo quando ha altri
impegni.” Ed era proprio così: quando dopo un anno cessai di recarmi in parrocchia,
Padre M. accompagnò la Signorina Teresa al mio studio ogni settimana aspettando la
fine della seduta per riportarla a casa. Avevo l’impressione che ne fosse un po’
innamorata e si preoccupava che potesse abbandonarla, così per tutto l’anno seguente
parlammo prevalentemente di lui, degli altri parrocchiani, alcuni dei quali riusciva ora
ad aiutare, di una sua sorella che le sembrava assai più bisognosa di lei. Quando si
sentì pronta, si separò da me portandomi in regalo una piccola rosa d’argento che
ancora conservo sulla scrivania.
Credo volesse un aiuto per rinunciare a quella ispirazione religiosa che alimentava il
suo pensiero e lo rendeva vibrante, ma la isolava in una grandiosità vertiginosa e
sovrumana. Il mio rispecchiare la sua esperienza senza giudizi e interpretazioni le
permise di attuare il suo progetto terapeutico, trasformando quella rischiosa,
“disturbante” fusione con Dio (Loewald, 1978, Black, 2006) nella rappresentazione di
un’entità amorevole e protettiva che potè gradualmente trasferire su altri esseri umani
e su se stessa (Fromm 1950, Rizzuto 1979, Meissner 1984, Jones 1991).
BRIGITTA
: “
LE BRACCIA APERTE
”
Brigitta, una donna alta e bruna sulla quarantina, il volto sottile improntato ad
un’espressione severa, l’atteggiamento rigido e un po’ scostante, si era trasferita da
qualche tempo da una cittadina del Nord in seguito ad una vicenda che l’aveva
profondamente turbata precipitandola in una profonda depressione. Mi disse subito
che la decisione di rivolgersi a me era stata assai difficile: temeva che il solo credere
che qualcun altro potesse aiutarla equivalesse a voltare le spalle a Dio. Mi aveva
lasciato un messaggio in segreteria, pensando che se non l’avessi richiamata avrebbe
rinunciato. Nella mia telefonata aveva visto il segno che Dio non considerava la
terapia un tradimento. Veniva da una numerosa famiglia di stretta osservanza
Luterana, che viveva in grandi ristrettezze in un piccolo paese, isolata dal contesto
sociale che diffidava di quella loro diversità religiosa. Il rapporto di Brigitta con i
fratelli era segnato dal suo essere la più piccola e ricevere quindi scarsa
considerazione dagli altri. Il padre, operaio in una fabbrica, era imperioso e austero, la
madre, assai ansiosa, viveva nel terrore di non riuscire a svolgere la mole infinita di
incombenze domestiche e di suscitare così la furia incontrollata del marito. L’infanzia
di Brigitta era stata amareggiata da sentimenti di vergogna e di paura nell’atmosfera