cupa di quell’ ambiente desolato. La madre era morta quando Brigitta era ancora
bambina e subito dopo i fratelli se ne erano andati di casa. Cinque anni dopo era
morto anche il padre, che da tempo soffriva di una grave depressione. Brigitta non
aveva terminato gli studi per andare all’estero a lavorare presso le Istituzioni
Protestanti con le quali la famiglia era in contatto. Poi era tornata in Italia nella città
del Nord dove si era trasferita una delle sorelle e aveva trovato lavoro presso la
comunità Luterana frequentata dalla sorella e da due anziane zie che da bambina
avevano vissuto in paese. Dopo diversi anni di lavoro nel centro di accoglienza della
Chiesa, dove lei si dedicava ai servizi di documentazione per gli studenti di teologia, le
era stato detto che non era più possibile sostenere l’impegno del suo salario, per cui
quel servizio sarebbe cessato alla fine dell’anno e lei avrebbe perso il lavoro.
Ne fu sconvolta; temendo di restare disoccupata, decise di licenziarsi per cercare un
altro impiego, ma le sue dimissioni avevano suscitato una reazione assai aspra nelle
zie e nelle sorelle. L’avevano accusata di essere ingrata e inaffidabile. Alla rabbia
violenta che queste critiche avevano inizialmente suscitato in lei era subentrata una
drammatica crisi depressiva e infine la decisione di trasferirsi a Roma presso dei
lontani parenti del marito e frequentare la loro Chiesa Luterana. La ricerca di un
lavoro era diventata ossessiva perché nonostante la cocente delusione dell’ambiente
legato alla Chiesa, era spaventata all’idea di un qualsiasi impegno al di fuori del suo
gruppo confessionale, riteneva che ovunque sarebbe stata sfruttata. Investiva di
rabbia ogni aspetto della sua vita: fratelli e sorelle, la cui migliore posizione sociale
era per lei fonte di grande risentimento, la Chiesa e la comunità da cui si sentiva
giudicata, la figlia maggiore che non capiva il suo stato, persino il marito, sempre
tanto amorevole. In quei difficili mesi mi ritrovai spesso a cercare di spiegare i loro
sentimenti per mitigare la rabbia e l’invidia di Brigitta. Sentivo però che questo non
l’aiutava affatto, rischiava semmai di alimentarne il disorientamento e il senso di
colpa.
Un giorno arrivò devastata dall’angoscia: temeva di perdere il rapporto con Dio, di
impazzire come suo padre, imprigionato come un ossesso in un’ armatura di odio e
disperazione. Solo allora colsi veramente il nucleo originario di tutta quella rabbia e di
quell’ invidia: l’immagine tormentosa di quel padre con il quale si stava identificando e
che cancellava in lei quella di un Dio severo, ma presente e giusto. Le dissi allora che
la fine del lavoro aveva riattivato tutti i traumi precedenti, precipitandola nello
sgomento provato al ritorno a casa dall’ospedale in cui era morta sua madre, per
affrontare quel padre tremendo e condividerne la furibonda disperazione. Non disse
niente, ma dopo qualche tempo mi parlò dell’esaltazione che il Pastore aveva fatto
della loro comunità, capace di difendere contro tutte le altre confessioni religiose la
verità di cui era l’unica detentrice “Ma che dialogo ci può essere con qualcuno che
pensa di possedere la verità?” si chiese e proseguì parlandomi della sua ammirazione
per Cronin, lo scrittore che dopo il ritorno alla fede cristiana ne aveva condannato gli
atteggiamenti settari. Brigitta non si sentiva più parte della comunità in cui era
cresciuta, ma temeva che un allontanamento ulteriore avrebbe pregiudicato il suo
rapporto con Dio. Aderivo pienamente non solo a quelle critiche, ma anche al suo
timore di perdere quel dialogo con Dio che sempre l’aveva sostenuta. Così decisi di
rischiare un auto-svelamento (Ehrenberg 1992) e le parlai di una mia esperienza in
una chiesa Luterana del centro, nell’intento di convincerla che poteva cercare