contemplare il cielo stellato insieme a tutti i suoi compagni di studio. Con loro andava
scoprendo il significato inesauribile dei testi e il valore simbolico di precetti che
adesso le sembravano preziosi e che poteva osservare.
L’analisi aveva aiutato Miriam a cercare e a trovare infine un luogo in cui il suo credo
personale potesse arricchirsi, permettendole di riconciliarsi con la sua gente e con
tradizioni alle quali aderiva ora per il loro significato simbolico e non più come codici
esterni di condotta.
A
LCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
Parlare di Dio si è rivelato in queste esperienze un elemento centrale di un processo di
individuazione che ha portato all’abbandono di precedenti modalità di vivere la fede e i
rapporti umani ad essa correlati: questo è accaduto a Brigitta con lo svincolo dal suo
gruppo confessionale e a Teresa con il ritrovamento di un senso di appartenenza non
più in conflitto con le sue istanze spirituali. Per Miriam il lavoro terapeutico ha aperto
un orizzonte di senso che le ha consentito di entrare in contatto con una vita spirituale
che poteva sentire autenticamente sua e riconoscerne le tracce in valori condivisi
all’interno della sua comunità.
La trasformazione della rappresentazione di Dio scorre parallela al cambiamento della
percezione di sé e dell’altro: in Teresa si era manifestata con l’ umanizzazione
dell’essenza assoluta del Dio con il quale si sentiva così profondamente fusa, e che
avvertivo come espressione di intensissimi bisogni di attaccamento e riconoscimento,
mai veramente appagati. Nelle fasi maniacali quei bisogni suscitavano una grandiosa
ispirazione divina, fertile e creativa, quanto può esserlo una visione mistica, ma la cui
discontinuità, legata alle fasi alterne della malattia, la riempiva di terrore fino a
decidere di rinunciarvi. In Brigitta l’immagine iniziale di un Dio severo che non
avrebbe tollerato il tradimento, venne gradualmente sostituita da una
rappresentazione più dolce, capace di accettare il dubbio e la confusione ed estendere
la sua benevola protezione a tutti gli uomini, qualunque fosse il loro credo. Nel
confronto terapeutico veniva ad attenuarsi in loro la scissione tra il vissuto della
“propria dannazione” e quello della “dannazione dell’altro”, che impregnava di sé
tutta la loro esperienza religiosa, così simile nelle sue drammatiche manifestazioni alla
difesa morale che Fairbairn riconduce alla deprivazione subita nella ricerca dell’oggetto
(Fairbairn, 1952, Jones 2002). La consonanza tra me e Miriam nel sentire la
spiritualità incarnata nella vita quotidiana, comune in fondo a tutte le fedi, aveva
permesso l’affiorare in lei dell’immagine di un Dio testimone dei suoi più profondi
valori, un’immagine che, come un terzo salvifico, ci salvò dal rischio di un
idealizzato incanto terapeutico e la riavvicinò ai luoghi di una riflessione condivisa sui
testi della tradizione ebraica. Una nuova rappresentazione di Dio sorge in genere da
un senso di sé più coeso, ecco perché nell’esperienza terapeutica la comprensione
empatica e il riconoscimento, spesso solo implicito, è il fattore decisivo. Senza un
pieno e sincero accoglimento delle diverse esperienze di fede delle mie pazienti,
nonostante non potessi condividerne il credo in un’entità ultraterrena, sarebbe stato
più difficile per loro trovare un ambito sociale in cui esprimere il loro personale
vissuto religioso.
In una prospettiva che considera la dimensione relazionale come l’origine e l’esito di
ogni processo psichico, gli argomenti di Buber (1923) dell’ “Io e Tu” dell’esperienza
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