sogni iniziali si trovava nella Sinagoga di Roma circondata da Rabbini che la
guardavano con disprezzo; in un altro sogno era rincantucciata in un angolo durante
un’ affollata cerimonia in Israele; nel vederla il Rabbino l’aveva additata e tutti i
presenti si erano messi a urlare perché lasciasse la sala. Si sentiva del tutto
inadeguata, alla ricerca incessante di apprezzamento da parte di chiunque, così da
esercitare una seduttività accattivante anche verso persone che in realtà non le
piacevano affatto. La relazione con me era connotata da un’idealizzazione sconfinata:
nel rapporto terapeutico sentiva emergere la parte migliore di sé, sepolta in genere
sotto una spessa coltre di svalutazione (Kohut 1966, 1977). Mi sforzavo di accogliere
quella idealizzazione e di corrispondere al suo bisogno di un rispecchiamento assiduo e
convinto (Kohut 1971, Lichtenberg, 2005, Lichtenberg, Lachmann, Fossaghe, 2005).
Mi alleggeriva il compito l’intensa ammirazione che provavo per la sua immaginifica
creatività che alimentava un flusso ininterrotto di rappresentazioni metaforiche con le
quali descriveva impressioni, pensieri, stati d’animo con una straordinaria intensità
sensoriale. In quelle immagini coglieva qualcosa di sé che non aveva mai
sperimentato prima (Fromm 1950, Loewald 1978). Nei sogni il ripetersi frequente di
rappresentazioni altamente simboliche – case che non appartenevano mai a lei, porte
che non riusciva a chiudere per proteggersi, sentieri scoscesi che doveva percorrere
per arrivare in cima e contemplare da lì il dispiegarsi di paesaggi vasti e luminosi,
acque profonde che l’avvolgevano accompagnandola per strani percorsi sottomarini –
adombrava la ricerca inesausta di un luogo dove trovare se stessa e che potesse
appartenerle. Cominciò così ad emergere una spiritualità, che sentii profondamente
affine, incentrata sulla sacralità dei gesti e dei compiti apparentemente umili della vita
quotidiana, e su quel loro impercettibile offrire un rapporto con la totalità
dell’esistenza. In quei gesti ritrovava se stessa, il suo amore per ogni forma di vita, il
senso della sua misteriosa bellezza. E io ne incoraggiavo l’espressione come una
conquista spirituale che apprezzavo e condividevo pienamente.
Ma a poco a poco mi sentii chiamata da lei ad esplorare il valore trascendente di
quelle immagini, per ricevere un nutrimento spirituale che riuscisse ad integrare la sua
scoperta di sé in una visione più ampia e condivisa (Aron 2004, Starr 2008). Non solo
ciò cui aspirava era fuori dalla mia portata, ma sentivo che avrebbe trascinato il
nostro rapporto in una dimensione impersonale e pericolosamente inflazionata, e
avrebbe finito per chiuderci in una specie di enclave idealizzata (Slochower 2011).
Cominciai così ad opporre a quelle sollecitazioni una ferma anche se benevola
resistenza. Fui dunque sollevata quando una volta mi disse di un sogno in cui si
trovava a camminare lungo un grande viale dai pavimenti di marmo, seguita a
distanza da un vecchio dall’aspetto imponente che infine la chiamò per darle un
anello prezioso sul quale riconobbe il proprio ritratto. Associò quella figura a Dio che
attraverso il dono dell’anello le mostrava quella “ scintilla di potenzialità creativa che
ciascuno di noi possiede” (Starr 2008, p.84).
Qualche tempo dopo un’amica la invitò ai Seminari di uno studioso israeliano. Nel
prendere parte agli incontri si accorse quanto tutti i membri del gruppo e l’ insegnante
stesso apprezzassero i suoi interventi, la creatività della sua immaginazione
metaforica che era emersa in modi tanto vividi nei suoi sogni e la consapevolezza
acquisita degli stati d’animo cui quelle immagini davano forma. Sognò in seguito di
partorire la propria testa e di uscire poi all’aperto in un deserto mediorientale a