la dialettica in posizione d’arresto» (Ibid. P. 116).
i
L’immagine dialettica apre quindi
ad una potenziale simultaneità «tra le cose alienate e l’avvento del significato» (Ibid.
P. 118), una simultaneità in bilico tra la dissolvenza e l’«attimo della conoscibilità»
(Ibid. P. 164). Ed è appunto tra i frammenti e le macerie della storia o delle storie di
vita, o, come direbbe Simone Weil (cit. in Putino. 2006, P. 63), tra la «particolare
violenza» che si agita nell’«alone dei resti», che si dovranno prendere le mosse per la
costruzione di un pluralismo realmente democratico.
Questa visione di Benjamin trova una corrispondenza nelle parole con cui Nietzsche
descrive il senso del proprio lavoro: «Il senso del mio operare è che io
immagini come
un poeta
e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità»
(Nietzsche. 1883-85, P. 170). Parole ancora attuali in un tempo, il nostro, chiamato
alla costruzione di un sapere che a partire anche dal poco sappia generare nuove
forme adatte alla vita.
La comunione di intenti che si avverte nel far reagire la riflessione filosofica con la
prospettiva clinica, ci autorizza a definire
estetico
lo spazio in cui è nuovamente
possibile “immaginare come un poeta”. Questo spazio si presenta come il luogo
preposto affinché il “fattore estetico” possa esprimere al meglio il suo potenziale
trasformativo. Perché tutto ciò possa accadere, è però necessario che le “cose” – i
frammenti, le macerie, i personaggi dei sogni, le intenzioni contrastanti – reagiscano
davvero
tra loro, senza fare né subire ingiustizia, ciascuna con le proprie forme,
parzialità, mutilazioni, afasie, anonimie o quant’altro appartenga alla maschera
disponibile ad ognuna di esse. Far reagire tra loro le “cose” significa porle l’una di
fronte all’altra (cfr. Buber) e far sì che ogni “cosa” possa tornare a sognare il proprio
sogno, anziché sottomettersi al sogno delle “cose” vincitrici (cfr. Benjamin). Si può
allora comprendere lo spazio estetico come una declinazione di quella comunità a cui
guardava Buber, cioè uno spazio animato da una prospettiva pluralista dove le
conflittualità e gli antagonismi tra «concetto e immagine, logos e narrazione, essere e
temporalità» (Rella. 2010, P. 19) vengono affrontati in modo non distruttivo.
Lo spazio estetico nella clinica
Per dare ragione dell’utilità di queste riflessioni nel nostro ambito professionale vorrei
descrivere un’esperienza clinica.
Marta è una donna di circa quarant’anni, alta, elegante e particolarmente acuta.
Quando mi contattò alcuni anni fa, si muoveva all’interno di un marcato affaticamento
esistenziale, alimentato sia da una diffusa convinzione di fallimento personale come
pure da disagi corporei difficili da curare. Marta è cresciuta in un contesto familiare
problematico, costituito dalla coppia genitoriale e da un fratello di pochi anni più
giovane di lei. La madre si relazionava con lei esercitando un potere sadico e
inflessibile e invalidando sistematicamente ogni forma di attaccamento che quella
bambina cercava di costruire. Una drammatica testimonianza di questa terribile
attitudine materna si rese evidente in un ricordo infantile. Marta si era affezionata ad
i
Benjamin è quanto mai esplicito nell’indicare il pensiero come ciò che consente l’attuarsi dello stato
d’arresto: «Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri. Dove il pensiero
s’arresta in una costellazione satura di tensioni, là appare l’immagine dialettica. Essa è la cesura del
movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. Essa va cercata, in una parola, là
dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo» (Benjamin. 1997, P. 126).
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