nessun cambiamento se noi nascondessimo il nostro analogo bisogno di “incontrare”
ed “essere incontrati”, il nostro bisogno, a nostra volta coniugato con la nostra
responsabilità terapeutica, di “stare insieme”.
I nostri analizzandi co-creano con noi l’attesa di “sentirsi” conosciuti, incontrati, non
come una collezione di psicopatologie, ma per le “persone che sono”. E questo accade
anche a noi. Sappiamo oggi che l’“essere le persone che siamo” contribuisce ad
accrescere l’efficacia del nostro intervento terapeutico. Il “sentirsi conosciuti”
nell’”essere con l’altro” ha un effetto vitalizzante per entrambi, analista e analizzando,
e va oltre la conoscenza esplicita e dichiarativa. Si fonda per lo più sull’esperienza
espansiva dell’enactment, sulla potenza espressiva delle azioni e dei comportamenti.
La stessa co-creazione del significato include la conoscenza procedurale e implicita.
Quando ci si sente bene in una relazione è anche perché i nostri atti sono come
pensieri incarnati: sentiamo una particolare vitalità quando “facciamo qualcosa” per
una persona a cui teniamo. E questo può perdere in efficacia se mediato dalla
conoscenza dichiarativa, se sottoposto in modo rigido alla funzione autoriflessiva.
Talvolta, è proprio questo pensiero incarnato nell’atto a contribuire a dare senso alla
nostra esistenza, a farci stare bene, a promuovere quella che potremmo descrivere,
parafrasando Tronick, come l’ “espansione diadica dell’ essere con l’altro”.
La nostra partecipazione alla relazione con l’analizzando è in questo senso ineludibile,
cruciale, indispensabile. E si rende possibile soltanto con l’azione, dando luogo a
quello che Lyons Ruth (1999) chiama “enactive representation” ed “enactive
procedures”.
Le “enactive procedures” diventano più articolate e integrate soltanto attraverso la
partecipazione attiva dell’analista, che si rende disponibile ad una interazione
intersoggettiva coerente, collaborativa e vitale. Ciò vuol dire che nella relazione con i
nostri pazienti dobbiamo “esserci” per davvero, certo con quelle versioni di noi stessi
che corrono sull’asse della nostra responsabilità e ruolo terapeutici, ma non disgiunte
da quello che siamo, da quello che sentiamo di essere. In questo senso, abbiamo
l’opportunità di co-generare e negoziare, consciamente e non consciamente, insieme
ai nostri analizzandi, un modo per essere genuinamente in una relazione co-
partecipata.
Queste procedure non devono necessariamente essere tradotte in conoscenza
simbolica riflessiva. Se ne può parlare ed anzi è un bene a volte parlarne, sopra tutto
se a iniziare a parlarne è l’analizzando stesso.
Ma l’enactment va vissuto, spiegarlo o interpretarlo può essere un atto inutile e non
terapeutico. Si finirebbe per disinnescarne il dispositivo che produce il cambiamento e
il suo potenziale trasformativo, contribuendo a promuovere tra l’altro una situazione
relazionale inautentica.
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