che la costringevano a non abbandonarsi al degrado, in cui in quei momenti avrebbe
desiderato scivolare, erano per lei un aiuto, quella quotidiana routine che ad ognuno
di noi serve a dare una cornice alla vita. Mi rispose che anche il suo psichiatra la
pensava così e le diceva spesso che le “tortuosità” erano le sue stampelle. Rincuorata
cominciò a parlare della sua vita spirituale in un modo ispirato e coinvolgente.
Trascorremmo le sedute successive in una fitta conversazione sulle intenzioni di Dio,
chiedendoci perché apparisse e scomparisse lasciandola alternativamente estatica o
disperata. Fin dall’inizio ebbi l’impressione nettissima che Dio fosse il suo unico
interlocutore, investito di un amore tanto appassionato da lasciarla poi sgomenta di
fronte al Suo silenzio. Mi sembrò dunque necessario non sottrarmi a quell’ intenso
confronto su una relazione per lei decisiva, e il nostro discorrere serrato non mi
sembrò mai un delirio, ma una ricerca di senso. Molti anni addietro aveva avvertito
una presenza rassicurante al risveglio e una voce le aveva detto che avrebbe vinto un
premio. Era stata così tangibile quella presenza e così chiara la voce che non aveva
potuto fare a meno di credervi. Da allora aveva sentito un aprirsi inaspettato del suo
sentimento religioso che l’aveva spinta a leggere testi, scrivere commenti e poesie in
una percezione diversa della vita e del mondo intorno a lei. Temeva si trattasse di una
nuova manifestazione della sua malattia e aveva pregato un sacerdote di parlare al
suo psichiatra. Quel sacerdote lo fece, ma dopo aver letto quanto aveva scritto si
disse convinto che la sua non era una nuova crisi maniacale, ma uno stato di
beatitudine davvero ispirato da Dio. A quello stato di beatitudine seguì tuttavia una
nuova crisi con ossessioni deliranti per la sua e l’altrui mancanza di coerenza nella
fede, e infine un episodio acuto all’interno della parrocchia che portò ad un nuovo
ricovero. Al ritorno dalla clinica nessuno dei parrocchiani vi fece il minimo accenno e
lei ebbe di nuovo momenti di grande ispirazione, condivisi con alcune significative
figure di studiosi, cui seguivano immancabilmente fasi di oscurità in cui il silenzio di
Dio la rendeva preda di rabbia e disperazione. Mi disse però che di recente le era
parso di cogliere la presenza di Dio durante una passeggiata al sole: l’aveva avvertita
come calore, il calore di un Padre, che l’amava, la proteggeva e la guidava. Poi si era
trovata la sera a rivolgere, cosa per lei del tutto inconsueta, una preghiera alla
Madonna, In una seduta successiva la vidi arrivare accigliata, l’espressione guardinga
e rigida, lo sguardo rivolto altrove. Le chiesi cosa fosse successo e infine disse: ”Non
dovevo aprirmi, non dovevo raccontarle tutte quelle cose…”. Mi chiesi allora se il mio
partecipare al suo racconto e il cercare insieme a lei risposte impossibili alle
angosciose domande sulle regioni del “silenzio di Dio” l’avesse confusa ancora di più,
quasi che il mio rispecchiare le sue emozioni le avesse amplificate. Sentivo però che
se avessi sottolineato in maniera sobria e razionale il suo stato di esaltazione,
introducendo magari qualche interpretazione del suo immergersi in una fusione con
Dio, avrei schiacciato il racconto sulla malattia (Kehoe, 2009), inaridito
quell’esperienza di beatitudine che l’aveva sottratta alla depressione. Decisi così di
risponderle che ciò di cui mi aveva reso partecipe aveva evocato in me l’immagine
della bambina che aveva inseguito il Papa nella speranza di essere salvata dalla sua
disperata solitudine. Aggiunsi poi: “Forse è la volontà di Dio che la mancanza
d’ispirazione di questo momento sia un’occasione per allentare le ‘tortuosità e le
complicazioni’ della sua vita per renderla più libera e aperta”. Tacque e poi,
mestamente, disse di non essere una buona Cristiana, perché non si occupava mai
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