Sento ancora il colpo nel cuore che mi suscitarono le parole di Alice : “E se vado in
Argentina e perdo Franco, dopo che faccio?.” Il ricordo di un’esperienza simile vuole
farsi parola, vorrei tanto rassicurarla e dirle “Stia tranquilla, so come si sente.” Per me
è un'esperienza vissuta, per lei solo una fantasia. Mettere dentro la relazione
terapeutica, in quel momento, questo contenuto avrebbe rischiato solo di appesantire i
vissuti di Alice, con la possibilità di farla sentire colpevole di avere riportato quel
pensiero e magari avrebbe potuto limitarsi nell'esprimerne altri in futuro
.
I dubbi, le paure che Alice esprimeva andavano a smuovere il ricordo delle mie. Mi
vedovo, tremando e con la voglia di scappare, in quell’ aeroporto pieno di persone
care, che mi soffocavano con abbracci e promesse di lettere ( ancora non c’era
internet .) Mi ricordo sola a vagare per le strade di Roma, come una zombi, che
ripeteva ogni giorno gli stessi percorsi, con una mappa in mano per non perdermi.
Altre volte i racconti di Alice mi hanno portato a riconnettermi con emozioni che non
avevo messo nel mio zaino interno, perché in quel momento troppo pesanti e che
potrei riferire al “sé amputato” di cui parla Hazel Ipp.
Nel suo bellissimo lavoro “Nell: Un ponte verso un sé amputato”, scrive: “Come
sappiamo il paese di nascita continua a risiedere profondamente in noi molto dopo che
ce ne siamo andati. Creare un ponte fra le esperienza di là e di qua, di allora e ora, è
scoraggiante, spesso impossibile. Se da una parte un senso di sé può prevalere e
molti aspetti del S
è vanno avanti insieme per affrontare il nuovo, puntualizzando e
arricchendo queste nuove possibilità, qualcosa di vitale viene lasciato indietro,
perduto, incapsulato nel mondo complesso e multistratificato della terra in cui si è
nati.”(Hipp H.,2008)
Per molto tempo le nostre sedute hanno oscillato tra momenti di euforia, dove i
contenuti erano “non vedo l’ora di lasciare Roma dove niente funziona, “ a momenti di
disperazione, dove il futuro era solo nero.
Alice si sentiva nuda di fronte a una nuova vita. Insieme abbiamo lavorato per trovare
dei vestiti adeguati. Abbiamo cercato di dare forma alle sue paure, una forma che
eravamo sicure non fosse né perfetta né giusta, ma era una forma abbastanza
rassicurante per compere il viaggio.
A differenza delle sue esperienze passate credo che Al abbia cercato e trovato in me
la possibilità di fare esperienza di un nuovo oggetto sé, una persona, che a differenza
di sua madre, poteva ascoltare e condividere le sue paure senza rompersi e che, a sua
volta, la sosteneva e incoraggiava emotivamente , fornendole una “esperienza
emotiva correttiva”,
Come dice Antonio Ferro:“I pazienti mettono in scena nel campo analitico i propri
vissuti e stati d’animo prima che possono riconoscerli e accoglierli come vissuti e
sentimenti propri; l’analista, attraverso il suo travaglio controtrasferale, accompagna
delicatamente le personificazioni del paziente finché egli potrà superare le sue
scissioni e anestesie mentali e recuperare le parti di sé emotive abbandonate nella
storia.” (Ferro A.,1996,p.182)
Quando dico che una migrazione è un naufragio mi riferisco al fatto che è impossibile
non sentirsi naufragare, annegare quando si attraversa lo spazio tra la propria terra e